viernes, 27 de octubre de 2017

PREMIOS DE HONOR POESIA-ITALIANO

1°PREMIO DE HONOR
UCCELLO SENZA ALI- SARA  ISABEL JUAREZ -CORDOBA- ARGENTINA

Là, dove il mare incaglia segreti millenni

e le snelle palme tramano radici,

coniugando pianoforti in concerto,

il prato umido dei tuoi baci,

mi porgeva nell’aurora il suo abbraccio

E non facevano niente i nomi…

Soltando rumore di voci…

Mi bruciò l’estate nell’isola

quando la passione gettò l’ancora,

là, dove le eterne promesse pronunciate

si accinsero a scortarsi, silenziose…

E partirono!

E non ci fu più pianoforte né concerto…

E le tue braccia… Oh, meraviglia!

Le tue braccia avvolgendo la mia vita,

stanca di amare tra i lenzuoli,

furono soltando tempo in lontananza

svegliandomi il brusio del porto quel mattino.


Se dimenticarti cerco ad ogni istante


perché ti fai ricordo nel mio cuscino?






2°PREMIO DE HONOR

ESTATE NELLA PELLE- BEATRIZ TERESA BUSTO -CORDOBA- ARG.

ESTATE NELLA PELLE

Da questa ombra bianca che mi opprime,
osservo la scacchierata galleria
scolpita con occhi bianchi e neri.

Alcune lacrime che raccolsi non so in quale mistero,
perforano lo sguardo.

Dal mio timore,
guardo il tuo viso crudo tante volte baciato.
Tante volte
oasi nelle mie apostasie.

Resto accucciata alle tue occhaie.
Amore…
Non abbandonarmi ai piedi delle parole.
Ancora è estate nella nostra pelle
Ancora la vita brucia.
                                                   













 VERANO EN AL PIEL

Desde esta sombra blanca que me oprime,
observo el ajedrezado túnel,
esculpido con ojos blancos y negros.

Unas lágrimas que recogí no sé en cual misterio,
horadan la mirada.

Desde mi temor,
miro tu rostro crudo tantas veces besado.
Tantas veces
oasis en mi apostasías.

Me quedo acurrucada en tus ojeras.
Amor...
No me abandones al pie de las palabras.
Aún es verano en nuestra piel
Aún la vida quema.





3°PREMIO DE HONOR

DONNA -ANTONIA RUSSO - SAN NICOLAS-ARGENTINA

Donna
partorita nel silenzio
nelle serene mattine
quando il sole tacce


Dalle tue mani
Escono  stelle
che ospiterano
bambini orfani

Dai tuoi capelli                                     
sorge la luce
che indicherà
 buoni sentieri

Dal tuo petto
emana la linfa
che alimenterà
i cuccioli nuovi


Dal tuo ventre
nascono germogli
che germinerano
nella madre terra


Dai tuoi piedi
si disegnano le tracce
che guideranno
passi incerti

dalla tua bocca
rigurgitano baci
che allatterano
la  vita eterna


4°PREMIO DE HONOR
UBRIACA DI LUNA -ADRIANA MONICA ROELOFS -CORDOBA -ARGENTINA

Notte bianca.
Peccato dormire.
Il giardino, ubriaco di luna,
mi chiama con un grido muto.
La canzonetta d’amore dei grilli
mi abbraccia, tiepida.
La mia pelle, i miei capelli,
luminosi da stelle.
Serata mágica.
La freschezza della rugiada
bagna l’erba giovane.
Ritorno al letto,
ubriaca di luna,
anche io.

PREMIOS DE HONOR RELATO/CUENTO -ITALIANO

1°PREMIO DE HONOR
GENNARO - ANTONIA RUSSO - SAN NICOLAS -ARGENTINA


Nella mia memoria cellulare é inciso a fuoco ogni storia, ogni paesaggio, ogni angolo di quel paese, che mio padre ha lasciato in Italia.
Mettere parole alle sue visicitudini non é facile, giá che il cuore a volte ci sorprende con palpiti inusuali, indecrivibili che noon permettono tramutare in parole le senzazioni dell’anima.
Gennaro con y suoi giovani ott’anni e nei tramonti, mi racconta ogni volta passi della sua infancia, della sua gioventú, della sua vita...e quante volte socchiudo gli occhi e lo vedo, li, in quella piazza, caminando alegre, o su la sua bicicletta faccendo biricchinate, giocando nei vigneti….ed i castighi del nonno, cosi severo, come l’ho conosciuto, imponeva continuamente.
Pero conoscendo a mio padre, so bene che il suo volto serio, e rosso, alcuni colpi e penitenze, fanno che il giovane che ho davanti a me non si lascia convincere.
In questo tempo felice, fra risate e maracchelle, pianti e scossoni, a avuto seguito un’epoca molto griggia e triste: la II guerra, che a distrutto molte famiglie, roto molti cuori, ed a mutilato molte anime, quelle dei sopravissuti, lasciando semre nei suoi occhi il colore rosso della sangue rovesciata, nel palato l sapore agrio dei cibi avariati, odore della polvere da sparo, ed il sudore della paura della  morte, a le perdite dello scordare…
Mi é sembrata verídica la scena nella cuale é stato catturato dai Nazi, assieme ad altri paesanii e che in un momento di lucidezza, fra la polvere e la sangue, ha finto d’essere morto, in questo momento misericordioso, lo hanno tirato, insieme ad altri cadaveri in una fossa buia e triste.
Il ventidue di aprile dell’anno quarantanove, é partirto per Napoli, nella nave Portugal, portando da quella terra lontana, la semente che anni piú tardi, la magia della congiunzione del universo permetesse che oggi scriva questa storia: figlia di immigranti, dolori marcchiati a fuoco, nostalgie sagge fin dall’inizio.
L’america, come la chiamano loro, ha offerto la sua cuna, per chi con sforzo e sacrificio, si impadronassero di una nuova vita.
L’italiano aveva una forza incontenibile, nonostante le difficolta dela lingua, dove i Giuseppe erano Cosepe, ed i Giovanni, jovani, peró la sua personalitá forte, non ha permesso che niente di ció potesso oscurare, o intibiare il calore delle sue discussioni, cosi come il fervore del suo lavoro.
Poco dopo, ha conosciuto mia madre, Felicita, i due dello stesso paese, i due con laureola pennellata di azurro smeraldo del mar Tirreno, che unendosi provocano un insolito arcobaleno di senzazzioni, trasmettendole ai suoi figli, qusto amore infinito per la terra cha lasciarono, l’aria tiepida, gli odori del campo, i colori del cielo, e le posita delle rocce….
Il suo lavoro é stato duro: costruire con le sue mani il nostro futuro, rubare hore al riposo, pero, nel mezzo delle sue fatiche, siempre lasciava uno spazio per noi, suoi figli, siamo cresciuti felici, pieni di un amore raro, fra regole ferree, baci, sgridate, e permessi nascosti.
Questa forma di allevarci, fra severa ed amorosa, l’ho capita con il pasarse degli anni, in queste rivissute conversazioninelle quali ci siammo potuti dire tutto: gli ho confessato le mie paure, gli ho rivelato cose cha non mi piacevano nella mia fanciulezza, e davanti
                                                                                                                                             



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 alle sue dolci spiegazioni, c´é stato un accordo comune di pace fra adulti. Ci siamo perdonti mutuamente, per i malintesi, e fin d’ora c’é una specie di sacra confidenza ed amicizia cha va piu in la della finita umanitá.
Il tempo lo ha reso una creatura docile, con occhi di bambino, e sorrisa facile.
Le parole continuano sendo pensione,,,gioco…..corge.

Ogni una delle sue arrughe ha una storia, un desiderioo compiuto, un dolore eternamente incastonato, e la nobile saggezza, che il trascorrere del tempo regala ai vecchi, dandogli insieme a la fragilitá dei suoi corpi, questa luce speciale che gli irradiano ogni volta che ci sediamo al suo fianco, pper sentiré “vecchie e lontane storie…”


2°PREMIO DE HONOR

UN CARO RICORDO- MARIA VITTORIA MASSIMO - MONTREAL  QUEBEC

Nella valigia di tanti anni fa che ho conservato, ho trovato delle lacrime nascoste in una conchiglia, le avevo messe li il giorno della mia partenza, quando ho lasciato con un abbraccio i miei genitori, per venire in Canada.
Quello è stato uno spazio della mia vita molto importante e doloroso, importante perchè seguivo l'amore della mia vita, quello che nel corso degli anni mi ha regalato tante soddisfazioni, una famiglia, dei nipotini, una vita abbastanza serena.
Doloroso perchè lasciavo per la prima volta i miei genitori. Li ho lasciati in lacrime, in quel momento ho preso le loro lacrime, le ho chiuse in quella conchiglia.
In questi anni ho cercato di colorare la mia vita con delle emozioni, con delle lacrime di sofferenza, ogni giorno il mio pensiero costante indeboliva la mia mente, pensavo ai miei, ricordavo quanto amore mi avevano dato dicendomi sempre: sei la mia bambina.
Il loro amore mi avvolgeva, mi faceva sentire protetta, amata, unica.
Avrei voluto restare accanto a loro, per custodirli, invece, ho spiccato il volo verso il Canada dove l'amore di mio marito mi aveva stregata, in questo amore c'era qualcosa di cui non riuscivo a farne a meno.
Mi sono avvolta nei loro abbracci  per sentirmi ancora la principessa dei miei cari.... Oggi 4 maggio 2015 a distanza di quarantasette anni ho riaperto la valigia, mi sono lasciata coinvolgere ancora dalla tristezza con quelle lacrime sparse dei miei cari, lacrime che mi faranno compagnia per il resto della mia vita. Tutto questo è racchiuso in una valigia di cartone, come pegno d'amore per i miei genitori che non ci sono più, loro mi guardano dal cielo,sono certa che continuano a dirmi :ti vogliamo bene bambina mia.

3°PREMIO DE HONOR
L/OROLOGIO DA POLSO - ENRIQUETA NOEMI BORRELLO- MAR DEL PLATA. ARG.

Ero stanco morto, tanto che mi coricai senza spogliarmi. Quando mi svegliai, sentii qualcosa di strano, mi girava la testa. Decisi farmi una doccia. Mi levai l’orologio e lo misi sulla tavola.
Pian piano mi sbotonai la camicia e, allora, vidi il polsino sinistro macchiato di sangue. Nella parte superiore del mio polso, c’erano due piccole incisioni. Che fatto era accaduto? Girai lo sguardo verso il tavolo, presi l’orologio, sconcertato.
Allora lo scoprí. Nel quadrante nero girava soltanto la lancetta dei secondi, le altre due erano sparite. Lo voltai e vidi due buchi. Da lí spuntavano due denti lunghi e brillanti.
             Il mio ultimo pensiero voló verso l’India  e ricordai a Balami, l’incantatore di serpenti a chi gli avevo comprato l’orologio.       



MENCION DE HONOR -CUENTO-RELATO - CASTELLANO -EXTERIOR

1°MENCION DE HONOR

LA NOCHE MADURA -SALVADOR ROBELS MIRAS -ESPAÑA

LA NOCHE MADURA 

            Era el episodio de su juventud que más y mejor recuerda, quizá porque marcó un antes y un después en su vida: el día de su decimosexto aniversario. Incluso, hace unos meses, en su faceta de escritor, plasmó las vivencias de ese inolvidable recuerdo en un cuento en el que él desempeñaba el papel de protagonista. La realidad inspirando la ficción, la ficción alumbrando la realidad. Para siempre.

LA NOCHE MADURA      
                                             

            María José Fuentes, con el cabello prematuramente encanecido y el rostro surcado por  profundas arrugas, a sus cuarenta años,  yacía en la cama aquejada de un cáncer de páncreas mortal de necesidad. La mujer, sin padres, viuda, con su única hermana emigrada a un país extranjero, sólo tenía a su unigénito: Lorenzo. 
Lorenzo Pacheco Fuentes, por su parte, además del cariño infinito de su progenitora moribunda, no tenía a nadie, sólo a él.  Ese era el panorama familiar que se le presentaba a Lorenzo el primer día de las vacaciones de verano, pocas horas antes de cumplir los dieciséis años.   
            -Me voy a dormir, mamá. Buenas noches.
            -Espera un momento, hijo.
            El muchacho se aproximó a la cabecera de la cama.
            -Dime, mamá.
            -Este verano, como habrás adivinado, tampoco iremos al pueblo… Apenas puedo levantarme de la cama. La evolución de la enfermedad va mucho más deprisa de lo que incluso los médicos más agoreros habían previsto. Pero no te preocupes, Lorenzo, he arreglado todo con mi hermana Ángela, la que vive en Alemania. Cuando yo… En fin, hijo, ella se ha ofrecido a… a… -la emoción truncó el discurso de la mujer.
-Tranquila, mamá. Además, me viene muy bien quedarme en la ciudad este verano. Tengo muchas cosas que hacer.
            María José ladeó el cuello y ahogó un sollozo contra la almohada.
             Con la puerta de su habitación entreabierta por si acaso su madre lo llamaba, Lorenzo, antes de meterse en la cama, guardó en una caja de cartón todos los tebeos que poseía, y los libros de Roald Dahl, Michael Ende y Tolkien, sus tres autores preferidos, y las colecciones de cromos de Fauna Salvaje y Banderas del Mundo, que le legó su padre, y del Campeonato Mundial de fútbol, y las seis películas de animación y la trilogía de Regreso al futuro, y los muñecos de Superman, Batman y el Hobbit, y el bote de canicas de colores. Luego, ató la caja con una cuerda y la depositó en el fondo del ropero.
            Lorenzo apenas durmió, casi seguro que no soñó. Esa noche, la noche que precedió a su decimosexto cumpleaños, puso el reloj de su vida en hora. Llevaba dos años de retraso.
            Por la mañana, muy temprano, emergió de la habitación enfundado en un traje de su padre difunto. Ya era mayor de edad.
            María José, con el rostro incluso más demacrado que la víspera, estaba con los ojos abiertos de par en par, como la encontraba su hijo cada mañana,  por mucho que éste madrugase. El dolor convertía los minutos de sueño de la mujer en una empresa de titanes.
            -Feliz cumpleaños, Lorenzo. Qué guapo estás. Abrázame, corazón. Más o menos, a estas horas, hace dieciséis años, viniste al mundo. Cuando te tuve contra mi pecho, sentí algo inefable, algo... algo… Fue el día más feliz de mi vida. 
            El muchacho se sentó en la cama, y se dejó acariciar por las manos trémulas de su progenitora.
            Ésta, tras sembrar el rostro de su hijo de ardorosos besos, trató de incorporarse.
            -¿Qué haces, mamá?
            -Pretendía darte tu regalo, pero creo que las fuerzas me han abandonado definitivamente. ¿Te importaría coger el bulto que hay debajo de la cama?
            Lorenzo se agachó y extrajo un paquete envuelto en un papel azul celeste adornado con motivos deportivos.
            -Es tu regalo de cumpleaños, hijo mío.        
El muchacho rasgó el papel que cubría una caja rectangular. Dentro se encontró con el uniforme oficial del equipo de fútbol de la ciudad.
            -Muchas gracias, mamá –Lorenzo se inclinó hacia delante y depositó un largo beso en la frente de María José. 
            -Le pedí hace unos días a nuestra vecina, Engracia, que te comprara la camiseta. Ella, tan servicial como siempre, accedió encantada, y no sólo eso, también puso el dinero que faltaba para completar el equipaje. Dale las gracias cuando puedas. Qué sería de nosotros sin una mujer como ella al otro lado de nuestra puerta… Si el regalo te disgusta, yo soy la responsable del desaguisado.  Engracia se limitó a completar generosamente mi encargo.
            -¿Cómo va a disgustarme, mamá? Es justo lo que quería.
-Pero, ¿qué llevas puesto, Lorenzo? Pareces todo un hombre.
            -Lo soy, mamá, he de serlo.
            -Por supuesto que sí. Tienes ya dieciséis años.
            -Hasta luego. Es probable que no vuelva hasta bien entrada la tarde. He cogido unas monedas de la hucha para comprarme un bocadillo y un zumo.
            -¿A dónde vas?
            -En busca del porvenir, el nuestro, mamá.
            -Ten cuidado, hijo mío.


            Lo tuve, madre. Jamás he olvidado el día en el que prematuramente me hice hombre, el día de… “La noche madura”.

2°MENCION DE HONOR

A LAS 6 DE LA MAÑANA -AINHOA BACENA ESCARTI-ESPAÑA


Cuando a Javier le despertó Sara a las 6 de la mañana nunca pensó que sería para indicarle que el metro abriría en breve. Cuando Sara se despertó y vio la angelical sonrisa de Javier clavada en su cara, supo que en cuanto se acercara la hora de apertura del metro le despertaría.

La noche anterior habían dejado plasmado en hechos todo, lo que en los últimos meses, habían estado negociando sin palabras. En el momento en que finalmente Sara no rechazó el beso de Javier, sintió su dulzura, pensó que eran buenos labios. Cuando pudo observar las imperfecciones perfectas de la anatomía de Javier, supo que aquella noche iba a experimentar lo que hacía años que no le apetecía. Al terminar con la falta de respiración patente en su garganta y echada sobre su pecho pensó, que era un buen hogar donde quedarse. Le besó, se durmió sabiendo que le perdonaría lo que hacía años había roto en el sinsentido de la lejanía.

Hace cuatro años cuando Javier escribió a una joven a cientos de kilómetros, nunca pensó que caería fulminado por los extravagantes encantos de ella. Era demasiado racional para dejarse llevar en las imposibilidades de ella y en los kilómetros que no llegaban a acortarse. Tras meses; quizá algún año de tiras y aflojas, tonteos, cierta ternura que siempre se agrandaba; el dejó de mirarla con ojos racionales al saber que la distancia se acortaba. Sara nunca comprendió que el tiempo y la distancia eran hechos que no dejaban ver con claridad a la racionalidad de Javier.

Hacía tiempo había estado enamorada de él. Muchas veces entre suspiros había pronunciado el nombre de Javier. Con todo el miedo de volver a querer tras años emborrachada de alguien que ya no importaba, se presentó Javier. En poder de él, todas las posibilidades de alguien libre en la gran ciudad. Obnubilada e inconsciente de los kilómetros y de sus imposibilidades, no fue capaz de entender como sabiendo que él se derretía por su persona acabó cediendo con otras. No quiso perdonárselo.

Tras meses e igual algún año, al fin en la misma ciudad y con las imposibilidades fuera del terreno de juego, Javier empezó a insistir. Sara era cabezota, testaruda, bloque de piedra en pecho cabeza, y no quería ceder. Javier derrochó todas sus armas, persuadiendo poco a poco el oído. Fue así, y no de otra manera, como Sara accedió a verle. Javier entendiendo por fin que llevaba años  enamorado de ella, intentó introducirla en su vida. Llenó todas las carencias que pensaba que podía tener.

Pieza a pieza fue reconstruyendo el puzle que era Sara. Pero aquel día cuando se despertó a las seis de la mañana sintió que aquellas piezas estaban desubicadas y desordenadas. Sintió, que no entendía nada. Horas que mutaron a días, que acabaron por ser una semana donde las llamadas de Javier se contaron por cientos. Ella no decía nada, no hacía nada. Sara estaba enfadada por aquel corazón roto del pasado. La venganza, esa sensación que me apretaba el orgullo hasta ahogarlo, le corría por las venas. Como todas las personas con mal genio, dejó su bravía domada. Justamente logró apaciguarse  en el momento en que la distancia entró en juego. Ésta vez por decisión de Javier los kilómetros volvieron a barrera. Dispuso no existir en la misma ciudad ni en el mismo país, ni siquiera en el mismo continente donde respirara ella.

3°MENCION DE HONOR
LA OBRA MAESTRA-WALTER ACOSTA - AUSTRALIA
 La  Galería  desbordaba de gente.  Pablo Santos iba de aquí para allá saludando y dando la bienvenida a los invitados.  Hacía tres años que venía  preparando esta exhibición y había puesto en ella todo su empeño y sus esperanzas, y  lo que realmente le preocupaba era el  veredicto de los críticos de la Prensa.  Para su pesar, este no tardó en llegar.  La crítica era unánime y cruda  en su juicio. No dejaban  de reconocer  que  Pablo Santos  tenía talento,  pero sus trabajos estaban fuera de época.  En realidad, tuvo que admitir que algo de verdad había en esas opiniones, porque apenas si  llegó  a vender unas pocas  pinturas.   Recordó con amargura los años en  que había sido  muy  solicitado por sus  finos retratos, pero ya  había perdido la cuenta de cuánto tiempo hacía que no recibía ningún encargo.  Alguna  una vez, alguien le había aconsejado la idea de cambiar su estilo, modernizarse y ponerse a tono con las nuevas corrientes,  pero  siempre  se  había resistido  a hacerlo por considerarlo una traición al Arte en sí mismo.  Para él no existía más arte que el clásico.   El resultado final de la exhibición y las críticas recibidas lo sumieron en una profunda depresión.   Todavía le costaba creer que todo su esfuerzo hubiera sido menospreciado por un grupo de imbéciles  que se tildaban de peritos. La vista de sus cuadros en el estudio acentuó su amargura, y le sobrevino un ataque de ira. En un arrebato tomó  un  tarro de pintura  y  lo  arrojó  con  furia  contra  una de  las   telas. Abandonó el taller,  cerró  la puerta  con  llave  y ya no quiso saber más nada de tomar pinceles.  Empezó a escribir trabajos literarios por la cuenta, lo que apenas si le daba para ir sobreviviendo.  Así pasaron más de dos años,  hasta  que  un día recibió un llamado de larga distancia.  Era un señor holandés de apellido Van Santen, que había tenido la oportunidad de ver algunos de sus retratos, y  le confesó que lo que admiraba en ellos era  su estilo “rembrandesco”.  Se preguntaba si el señor Santos estaría dispuesto a pintarle un retrato de su persona.  Pablo no vaciló ni un instante en decirle que por supuesto estaría encantado de hacerlo.  Dos semanas después  el  señor  Van  Santen   se hacía presente  en  el estudio.  Luego de sentar las condiciones de rigor, fijaron fecha y hora para comenzar las secciones.  Terminado los detalles del  protocolo, el señor  Van  Santen   se levantó de su silla y  su mirada curiosa  recorrió cada rincón del taller hasta que se detuvo ante un caballete donde reposaba una pintura cubierta con un paño.
___¿Que tiene ahí?  __preguntó intrigado.
___Es  uno de  los fracasos de mi última exhibición.  __Confesó Pablo.
___Me gustaría darle una mirada.
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___No creo que le interese mucho,__ observó el artista. __  pero en fin.
 Diciendo esto, procedió a descubrir la pintura.
___Y ahí ¿que pasó? __    Exclamó  extrañado el holandés, teniendo ante su vista un 
paisaje de verde con un tremendo manchón rojo en una esquina. 
___Solamente __contestó avergonzado el  pintor __que en un acceso de rabia le arrojé un tarro de pintura y lo arruiné.
___No, mi amigo, que está diciendo. Usted no lo arruinó.  Usted creó una “obra maestra”.  Dijo el otro con admiración.
___Vamos, señor Van Santen, no se burle.
___Le doy mi palabra de que estoy hablando muy en serio.  Es un trabajo extraordinario.
Pablo lo miró desconcertado. No podía creer lo que estaba oyendo.  ¿Ese mamarracho una obra maestra?  
___Me gustaría comprárselo. ¿Cuánto pide?  
___No sé, me ha tomado de sorpresa.
___Está bien, piénselo tranquilo, y cuando vuelva podemos cerrar trato.
El día señalado para comenzar el retrato,   el señor Van Santen  compareció  a la hora convenida, pero antes de disponerse a posar  le preguntó a Pablo.
___Y bien señor Santos. ¿Ha pensado en mi oferta?
___Bueno, aventuró Pablo con timidez.  ¿Le parece que $6.000 dólares estará bien?
___Señor Santos, por favor, yo no le he pedido que me lo regale.  Ese cuadro vale 
diez veces más. Le ofrezco $20.000. ¿Está conforme?
Por supuesto que lo estaba, y  además  muy orgulloso de haber creado una  Obra 
Maestra.              

4°MENCION DE HONOR
EL RON TU VENENO PREDILECTO- FRANCISCO ENRIQUEZ MUÑOZ -MEXICO

TRIQUITRACATRAC, hace aquella maquinita maravillosa: signos para varios idiomas, letra normal y cursiva, tipo especial para TITULARES, persiana correctora, centrado automático, tabulador decimal y un etcétera estimulante y nutrido. Ah, pero lo más espectacular es, sin duda, la Memoria. Esto de escribir un texto y, mediante la previa y sucesiva presión de dos suaves teclas, poder incorporarlo a la memoria electrónica, es algo casi milagroso. Escribir para ser, para eludir la muerte. Recordar es como vivir, dejar que las letras ondulen en la superficie de la pantalla en otro acto de frenesí, no por menos lejano más personal e íntimo. Meditar las frases, acomodarlas y embellecerlas. Lamer la vulva del sustantivo, apretujar las tetas del verbo, frotar el clítoris del adjetivo hasta oírle mascullar: «Sí, sí, así... Sigue, sigue...». Montar al adverbio y acariciarle las nalgas al artículo y besar el cuello del pronombre y continuar haciéndole el amor a cada oración, volteándola, ensanchándola, vejándola. Herir la superficie de la pantalla y ver cómo brota la sangre del encuentro, la sangre del dolor. TRIQUITRACATRAC.
Tú, Clark Kent, en efecto, el viejo periodista, vives otra vez dentro de ti todas las imágenes que ya rememoras borrosamente y no sabes si pensar que son fieles a como pasaron, o si se trata de una invención total de tu mente que te traiciona o, mejor dicho, de los años que te habías habituado a poder lo que nadie más puede. Por eso has titubeado en contar esta autobiografía desde el mismo segundo en que tomaste la decisión de hacerlo: si en primera persona, como es lo habitual, o en tercera persona para tener el chance de alejarte de ella, o así como lo estás haciendo, en segunda persona del singular. Sin embargo, de cualquier forma, reconoces que has caído inevitablemente en la autocompasión, en la justificación, en algún tipo de análisis profundo al que siempre te habías negado en redondo. Además, llegaste al final y ni siquiera comprendes si en realidad éste es el final.
Presionas las teclas consabidas y de inmediato se inicia otro milagro. El papel comienza a poblarse de elegantes caracteres. El carro de la impresora va y viene, sin tomarse una tregua, y así extraes esta hoja. Luego la empalmas en el reverso del ciento de cuartillas que hay sobre el escritorio. Al llevarte un cigarrillo a la boca, la mano presta a colocarlo maquinalmente, al ir a quedar entre los labios, los pulmones previamente listos a absorber el humo, lees todo esto que has escrito difícilmente, entre dudas y victorias, tachando, enmendando, agregando; todo este disparate naciendo por magia de tu creación o de tus reminiscencias; toda esta historia, desarrollada en noches de insomnio, germinando poco a poco como maravillosa semilla. En el momento que terminas el análisis, suspiras. Cada uno de los cambios de opinión representa un acontecimiento tremendo. Ya sea la exaltación de la idea genial, el autor brillante que recibe entusiasmado a Honey Bunny, apuntes en mano, «déjame que te lea esto, es lo mejor que he escrito en mi vida», ya sea el naufragio en la más profunda depresión, «Dios mío, así nunca voy a llegar a ningún sitio, soy incapaz de hacer nada, llevo ya dos años con esta maldita autobiografía y no me sirve ni una línea, ni una miserable palabra, ni una idea, de todas cuantas he parido». Y la consecuencia son espantosos intentos de suicidio. El día de las pastillas, el día que te aproximaste al balcón en la silla de ruedas y forcejeabas con la barandilla en un intento patético de morir. Se mudaron a una casa baja. Entonces lo intentaste con la navaja de afeitar, cortándote las venas, cuatro rasguños ridículos y sangre hasta los codos.
De pronto, Honey Bunny vuelve a casa arrastrando consigo un interminable rosario de afrentas y golpes bajos. La esperas en el dormitorio, donde cada resquicio de luz se encuentra cubierto de penumbra, encorvado sobre el tocador como si llevaras un caparazón sobre la espalda, eliminando con un lápiz varios párrafos que consideras son inservibles en esta hoja. Y el detalle preocupa a Honey Bunny porque sólo te refugias en la revisión exhaustiva cuando no puedes soportar la soledad. No hay problema cuando te emborrachas. En el momento que te hinchas de ron (oscuridad líquida que deforma la imagen de los libros, adormila la realidad y suelta de su encierro a la fantasía) es porque has elegido el camino que te conduce a ti mismo, con el ron, tu veneno predilecto, te buscas y te encuentras o no te encuentras, te enamoras de ti mismo o te detestas, discutes o dialogas, pero estás en terreno seguro enterándote de que naciste solo, vives solo y morirás solo como todos los seres humanos, y encajando la noticia con más o menos deportividad. El que se zambulle en la intensa corrección de estilo, en cambio, es el que busca compañía desesperadamente, aunque sea de papel, el que echa de menos las dos piernas que tenía antes de entrar al escondite subterráneo de Lex Luthor que estaba construido con kriptonita, el que se compadece de la pérdida total de sus superpoderes, el que no puede soportar la soledad a la que se cree condenado.
«¡Honey! —exclamas, dejando este papel sobre el tocador, como dando a entender que no lo necesitas ahora que ella ha regresado. Los presagios son mucho peores si el héroe que ha sido derrotado recibe a su concubina con grandes aspavientos y voces estentóreas—. ¡Ayúdame, por favor! Ayúdame, si no me ayudas, si no es por ti, yo...». Ella te abraza, te arrulla, te besa la frente con infinita ternura. «Soy un imbécil —admites—. Lo sé. Lo reconozco. Vivo de ti. Soy incapaz de valerme por mí mismo, soy incapaz de escribir nada positivo. Te padroteo...». La alusión desentierra la procedencia de la muchacha: HONEY BUNNY, TRIGUEÑA, 23 AÑOS, OJIVERDE, ALTA (1-71), CUERPAZO (100-62-92), CARITA PRECIOSA, INDEPENDIENTE, ¡PERMITO TODO! HOTELES, DOMICILIOS. 04455 5430-89-31. La conejita de manos cariñosas y piernas dóciles que, tras desentenderse de su disfraz con contoneos propios de serpiente, estuvo dedicada en cuerpo y alma a otorgarle una muerte chiquita (la más intensa manera de celebrar la vida) al viejo tullido que correspondió no con rosas, ni con estrellas, ni con afrodisiacos billetes, sino con la más simple, sincera y cautivadora de las galanterías, que fue un ramo tupido de historias del hombre más súper de todos los tiempos. Con un aire distante, como quien no quiere la cosa, como si no te dieras cuenta de la dimensión absorbente de los recuerdos que narrabas, atrapabas a Honey Bunny, la hipnotizabas con una infinidad de revelaciones extraordinarias, le ponías los ojos cuadrados y, cuando querías y era necesario, rompías el encanto con una repentina llorera que la hacía volver a prestarte su vagina como secante de lágrimas. Honey Bunny siempre ha sido una hembra de esas que viven convencidas de que el coito es la solución a todos los males y de que, con el coito, puede satisfacer todos sus deseos, pero no es mucho más puta que las otras putas. Yo diría que es generosa, que tiene un corazón más grande que sus tetas. No puedo decir que sea perfecta porque late un punto de histeria helada y sin retorno en su sonrisa de dientes amarillentos, llena de caries, pero le sobra sentido del humor y no le faltan las ganas de gustar y de entretener y de complacer, y es verdad que se enamoró de ti, que purga culpas obsequiándote su dinero, haciéndose tu esclava, soportando tus caprichos e intemperancias.
«Ayúdame, Honey —suplicas con la cabeza apoyada en su hombro derecho—. ¿Me ayudarás?». «Claro que sí. Sabes que siempre podrás contar conmigo. No te preocupes, Clark. La ignorancia de tu trabajo es su mayor gloria. Tu autobiografía se tocará con repugnancia, como alguien que toca algo que puede explotar. Olvídate de los críticos... ¡Críticos! Examinan desde todos los puntos de vista menos del esencial. Es como si un naturista, al describir el género equino, empezase a dar lata acerca de las herraduras». «¿Cómo me ayudarás?». Honey Bunny no sabe qué decir y no dice nada. Y tú, iracundo, la miras fijamente con ojos vidriados, semivisibles, y ella se enciende como una pira, con un fuego azuloso, sucio, mortecino. Un aullido de dolor sale de la muchacha, quien trata, durante unos segundos, de quitarse la ropa; desesperada, cae al suelo; su piel arde, se desflora con la combustión de la que brota un humo pestilente. Cuando la carne chamuscada se derrite y los huesos asoman entre burbujas, te limitas a desnudar los dientes, pero no es una sonrisa. Pareces muy peligroso. Eres peligroso. Sí, han empezado a regresar tus superpoderes.

5° MENCION DE HONOR
EL MARISCADOR - JUAN PABLO SCROGGIE -CHILE


“Escucha la angustia interminable
de esa angustia que se llama hombre”
Monumento al Mar, Vicente Huidobro


Todavía no aparecía el sol subiendo por los Andes pero ya clareaba amarillo rojizo en el horizonte. La Cruz del Sur se difuminaba en el firmamento. Los hombres, ansiosos como todos los días, esperaban callados, desnudos, sentados incómodos en la arena de la playa. El mar Pacífico rugía como un león herido en su permanente trajinar. Hacía un frío glaciar intenso acentuado por la humedad de la niebla mañanera.  El  más viejo, que parecía ser el jefe por tener la barba larga y la piel más curtida, abandonó su pasividad contemplativa porque vislumbró el momento preciso. Se levantó en forma lenta de su asiento improvisado, una roca arrojada por algún volcán en erupción, y mandó a los demás a la recolección.
Un hombre, como todos, se puso de pié. Tomó el canastillo tejido de pita. Lo que acopiara ese día iba a ser el sustento para él y su familia. Se metió en el mar, esquivando hábilmente las olas que llegaban hasta su pecho, empezó a recolectar los moluscos que salen a respirar con la bajamar.   
Cuando el sol estaba apareciendo y el frío se tornó irresistible,  divisó en el piso del mar la almeja más grande, bonita e impresionante de su vida. Tenía el doble del tamaño de una normal, de colores brillantes y atractivos. El canasto estaba lleno, pero la ambición de atrapar al molusco más hermoso y exuberante que se haya visto, era insuperable. Tomó rápidamente la concha con su mano derecha apretando lo que más pudo su preciada gema. Sintió, en forma dolorosa, que tres grandes agujas le perforaron la palma de la mano. Era de esos anzuelos tridentes, acerados, con punta de muerte, lo que los hace imposible de desprender. El anzuelo lo jalaba mar adentro. Intentó zafarse desesperadamente. Soltó el canastillo. Con la mano izquierda, trató inútilmente de desenganchar la derecha. Al otro lado recogían la lienza con fuerza y seguridad.
Necesitaba respirar. Cada tanto, un esfuerzo sobre humano le permitía nadar a la superficie. Al llegar, daba unos pequeños saltitos y volteretas en el aire, tomaba oxígeno, chapoteaba y volvía a hundirse. Sin energía, presintió que llegaba el fin. Tenía ganas de llorar de impotencia. Sabía que le darían con una piedra en la cabeza, para dejarlo inconsciente. Después lo faenarían y despellejarían para convertirlo en alimento. Exigió una explicación al cielo, ¿Por qué, Dios, por qué,… hiciste a los peces a tu imagen y semejanza? 

6°MENCION DE HONOR

LAS ANCIANAS -MIGUEL ENRIQUE GONZALEZ TRONCOSO -CHILE
            Mientras me cortaban el cabello, miraba distraídamente hacia la calle a través de la mampara de vidrio.
        De repente, divisé a lo lejos dos figuras que se apoyaban mutuamente para caminar. La peluquera, queriendo adivinar qué era lo que acaparaba mi atención, comentó:
- ¡Esas dos, son la Otoño y la Primavera!; son viejitas como ellas solas. ¡Y tienen más de noventa años! –agregó-.
- ¿Y…, son vecinas del barrio?, me atreví a preguntar.
- ¡Claro que sí!; vienen siempre a comprar a la verdulería de al lado. Y, una vez al mes pasan para acá para que las peine. Años atrás venían a que les hiciera la pintura, pero ahora solo les gusta peinarse. Mejor para mí, pues ya no tiño el pelo, y me habría apenado decirles que no, dijo la mujer.
- Qué curioso, las dos se parecen mucho, ¿son acaso hermanas?
- ¡Si, pues!... Mire, la que viste el chaleco plomo se llama la Otoño, pero le dicen la “otoñito”, la otra, la del chaleco burdeos, es la Primavera. Son mellizas, y nunca se casaron. Han vivido juntas toda la vida, agregó la peluquera, mientras me ladeaba la cabeza para cortar mejor sobre mi oreja derecha.
- Y, dígame una cosa, siempre fueron así, “agachaditas”…
- ¡No, pues! Cuando eran más jóvenes caminaban bien erguidas, muy orgullosas, pues eran muy bonitas, muy atractivas. Fíjese que no les faltaban los pretendientes. Los hombres volteaban a verlas. Pero ellas se hacían las desentendidas. Siempre se dedicaron a cuidar a sus padres, que murieron de viejitos y en su casa. ¡Pero, así se les pasó la vida! – reflexionó -
- Y, ¿habrán sido felices?, me atreví a preguntar, no directamente, sino que como a mí mismo.
- ¡Pero claro!, se apresuró a decir la peluquera, y prosiguió… Mire, cuando todavía eran jóvenes, y yo una chiquilla recién casada, venían a esta peluquería, que era el negocio de mi madre, y en más de una oportunidad las escuché hablar muy contentas. Se reían de cualquier cosa y se veían felices. Les gustaban los niños. Ambas eran profesoras y siempre hablaban de sus alumnos. Del “futuro”, decían ellas. Nunca las vi tristes. Algunas veces andaban como en el aire, quiero decir, así como lanzando ideas. ¿No sé si me entiende?
- Sí, perfectamente, pero continúe por favor…
- ¡Verá!…, varias veces las escuché decir que no era necesario viajar para conocer el mundo. La “otoñito” sobretodo, decía que por mucho que uno viajara a distintos lugares del planeta, siempre volvía al mismo lugar. Y, filosofando, muy sería, agregaba: ¡El hombre, por mucho que viaje, siempre volverá a sí mismo; es como un extraño en el mundo, siempre añorando el lugar de donde partió, y, como no lo encuentra, vuelve a sí mismo!
- ¡Vaya!, qué profundidad, dije, pero la mujer continuó:
- Cuando la “otoñito” hablaba así, su hermana, la Primavera, remachaba sus dichos diciendo: ¡Así es!..., ¿ó a usted no le ha pasado que después de viajar, no sé, a cualquier parte; por ejemplo, a Cuba, Punta Cana o Europa, sólo puede asegurar que ha conocido lugares; pero, en su interior, usted sabe que esos no son sus lugares; que su lugar es usted mismo? Y, concluía: lea usted libros, muchos libros. Así podrá viajar. Incluso a otros mundos. Y, lo que es mejor, lo ayudarán a viajar hacia sí mismo.
        Allí, en la calle, estaban las dos ancianas, con sus cuerpos desgastados, encorvadas por el paso de los años, como árboles añosos, tratando de cruzar la calle nuevamente. Afirmadas una de la otra…
        ¡Ya, listo!, me dijo la peluquera. Pagué y salí a la calle. Apresuré el paso hacia donde estaban las ancianas y alcancé a escucharlas decir, antes de que cruzaran:
- ¡Apúrate Otoñito!…
- ¡Cálmate, Primavera!, que aunque nos apuremos, llegaremos al mismo lugar…
         Y, mientras el sol se escondía en el horizonte para dar paso a la noche, seguí caminando pausadamente y dejé que mis pasos me llevaran.
           
                                              
                                                                                   

sábado, 2 de septiembre de 2017

MENCIONES DE HONOR -CUENTO/RELATO -CASTELLANO -ARGENTINA

1°MENCION DE HONOR- GUILLERMO HORACIO PEGORARO

ME CONTO EL NONO

Nuestra casa vivía en continua construcción; cómo no estarla, si avanzaba al ritmo del esfuerzo de mis padres. Al lado, un terreno baldío a la espera de los sueños constructivos de un vecino. Mi padre, bajo el permiso de su propietario, limpió el espacio y lo utilizó para criar gallinas, perros de dudoso linaje, y como pobre Disneylandia, al permitir a sus dos hijos y demás mocosos del barrio, jugar en un enorme y fantástico olivo.
Cada martes y jueves, a casa se llegaba mi abuelo. Petizo, medio pelado, lleno de machitas color canela que denotaban vejez, y con una de esas caras de bueno que todo abuelo debería tener. Caminaba despacio, demasiado para mi gusto, al no amoldarse a mis corridas que demostraban mis ocho años. Era increíble verlo llegar, con ropas para el trabajo, cómo él decía, pero que deben haber sido las mismas para todos los días. Traía consigo un pequeño bolso, y en el algunas herramientas de huerta. Charlaba un rato como mi papá, uno poco más con mi mamá, y luego de pedir permiso, se dirigía a cuidar su huerta en el baldío prestado.
Aparte de corredor, reconozco que yo era un preguntón. Así pude conocer cosas, enterarme de otras, ver el mundo y los sentimientos de otros, a través de la voz del nono.
Recuerdo que esperaba con ansias los martes y jueves, y estadísticamente, eran los días en donde menos problemas llevaban mí firma, bajaba el índice de castigos y no adeudaba tarea de la escuela. Todo para estar con el abuelo y aprender a mirar un poco más allá de los que mis ojos lo permitían. Por un rato no lo molestaba, lo miraba unir cañas para los tomates, cavar para los rabanitos, inspeccionar cada hoja de lechuga y regar con una lluvia fina... sin llegar a embarrar... cada surco que explotaba en vida, como las líneas profundas de su rostro.
Supo contarme de su tierra natal, Italia, y de su pueblo en la isla de Sicilia. Lo hacía con tal fervor, que daban ganas de mudar mis juguetes hacia allá.
Otras veces me hablaba en su idioma para darme alguna enseñanza “Ay Guiyo... mira el cielo”, y yo miraba ese espacio celeste con nubes como pelotas de algodón, para luego escucharlo sentenciar “Quando il cielo sembra lana la pioggia non è lontano”. Y cosa de mandinga, al poco tiempo llovía.
Quizás por este intercambio, su sabiduría por mi ignorancia, me fui atreviendo a preguntar más. Y si existió un hecho que me quedara gravado y marcara para siempre mi sentir, fue su respuesta en unos de esos tantos jueves.
Quise saber el porqué de su mudanza, del viejo al nuevo mundo, y especialmente a este país, en donde conociera a una criolla como mi abuela, y tuviera dos preciosas hijas, la menor, mi mamá. Qué había en especial en esta tierra que lo trajo sin dudar, y de lo que me sintiera orgulloso y sin ánimos de emigrar.
El abuelo ya no tenía la memoria de épocas lozanas. Pero como todo anciano le era más fácil rememorar que recordar.
Dejando de lado el rastrillo, me pidió que me sentara al frente suyo, me miró con sus profundos ojos verdes, y metiendo su mano en el suelo, arrebató un puñado de tierra, a la que dejó caer lentamente al compás de sus pensamientos.
  • Ay Guiyo, la tierra es igual en todas partes, pero tiene una virtud que no posee ningún otro objeto... es lo único que no se puede fabricar. Lo que cambia son los que las ocupan y las maneras en que se tratan. Tu juegas con soldaditos, y sabes que después de varias batallas, algunos no retornan a su caja, porque están rotos o se perdieron. En mi país la guerra fue de verdad; peleábamos contra vecinos y había mucho dolor y odio. Numerosas personas queridas resultaron heridas y a otros nunca más los vi regresar. Algunos decidimos escapar de esa locura en búsqueda de paz, y cada cual decidió el lugar en donde volver a comenzar.
El nono respiró hondo, y en sus ojos creí ver escenas de su infancia deambulando por su mente. Volvió a mirarme y continuó.
- Veras Guiyo, que los pueblos responden a su historia, porque así será tu futuro de acuerdo a los bien o mal que te comportes ahora. Hasta el otro extremo del mundo me llegaron historias de cada país americano. Y presté atención a cómo habían logrado sus independencias. Todos, sin excepción, se sentían orgullosos del esfuerzo y del coraje puesto por sus patriotas, pero ninguno me caló tan hondo como los de este país en donde tú has nacido...
Me le quedé mirando, y la huerta dejó de hacer los ruidos propios de la naturaleza. Y en ese mágico momento, en donde la sabiduría fluye entre las generaciones, él me contó.
  • Supe de dos historias. En una, la ciudad defendió su puerto de dos invasiones. Los defensores sólo contaban con pocos soldados pobremente armados, y por el otro, filas y filas de enemigos con armamento superior, caballos y buques que hacían tronar sus cañones contra la endeble ciudad. ¿Y sabes quién ganó Guiyo?, los de la ciudad, porque no hay poder alguno construido con avaricia que pueda contra quien abraza un ideal. La ciudad no solo fue protegida por el puñado de soldados, sino por el pueblo entero. Mujeres, jóvenes, padres e hijos, hermanos y vecinos, ricos o pobres... ante un adversario imponente, hubo un pueblo imponente, que con piedras, palos, uñas y dientes defendieron cada ladrillo de adobe de la ciudad. No hubo tesoro conquistado, sólo se quedaron con lo suyo, y de seguro, con mucho orgullo.
El nono estaba emocionado y yo con mis fantasías construyendo en mi mente cada escena descrita.
Quise más. – ¿Y la otra historia abuelo?
  • La otra epopeya es aún más heroica. Se trató de otro pueblo, perdido en una zona bella pero difícil. Eran pocos, todos trabajadores y emprendedores. Supieron del avance del enemigo para someterlos y apropiarse de sus bienes, y ellos, entre la duda de dar batalla o rendirse, concluyeron que ninguna de las dos alternativas era posible. El ejercito que avanzaba estaba formado por profesionales de la guerra, y ellos apenas un puñado de civiles. Sellaron que a sus tierras las perderían, pero que nadie se apoderaría de su libertad, honor y dignidad. Guiados por un general patriota, vieron por última vez sus casas y campos... y les prendieron fuego. Quemaron hasta la tierra para que el ejército enemigo no tuviera alimentos ni refugio cuando llegara. ¿Te imaginas Guiyo?, que estos hombres, con sus mujeres e hijos, podrían haber salvado sus posesiones con solo rendirse y aceptar ser esclavos, pero prefirieron despojarse de todo bien material y conservar intacto el sentido de  justicia, no sólo para ellos, sino para todos aquellos que nacieran en esta bendita patria.

Han pasado largos años desde aquellas historias y en la escuela se las recuerda. Que curiosa es la realidad que no agregó nuevas hazañas para conmemorar. Pareciera que los valores son cosas del pasado, cualidades de gente utópica. Hoy al enemigo no se lo distingue porque se camufla entre nosotros, conspirando para crear pobres a modo de esclavos, y boicoteando el surgimiento de un pueblo glorioso que defienda sus ideales... me lo diría el nono, quitando con furia las malezas para que no pudran la buena huerta.


2°MENCION-DE HONOR - EDDA OTTONIERI DE MAGGI

CAMINO DE TIERRA

Te dije que íbamos a tener problemas- dijo la mujer mientras giraba el torso para mirar a su  marido, quien en ese  momento entraba a la cocina.
__ ¿Y qué problema tienes tú si ni abriste la boca y el periodista soy yo? El  sentido común me llevó a sacar caretas. Si todos nos callamos…__ respondió él mientras abría la heladera.
__ ¿Se puede arriesgar un hombre  cuando  tiene  esposa e  hijos?    Pienso que los poderosos saben usar muy bien  las banderas de la venganza…
__ ¿Qué me quieres decir?__ dijo Lito  mientras se  acercaba a ella con un vaso de cerveza.
__ Lo que oyes; esta mañana, cuando llevaba a Mario y a Lara, en el auto, a la escuela, otro auto de alta gama, azul oscuro, con vidrios polarizados,  nos siguió por todas las calles por donde íbamos.  Pensé que era idea mía; entonces, desvié el coche por una manzana menos céntrica, pero igual  nos siguieron. En el momento en que los niños bajaron frente a la portada de la escuela, el otro auto se puso al  lado del mío;  cuando arranqué para regresar, me siguieron hasta aquí. Me transpiraban las manos y el corazón se me escapaba del cuerpo… En el momento en que entraba el auto al garaje, rompieron el aire frío  de la mañana, a bocinazos. Yo no quiero ser patriota… por eso te pido que dejes el programa o cambies el enfoque…o  busques  otro tema para “lucirte”, pero no arriesgues demasiado…
__  Bueno, Bueno… Veo que los ladrones de guante blanco consiguieron lo que querían, te asustaron para que vos me pasaras el dato. Lo voy a pensar.
__ Acá no hay mucho que pensar… Están tus hijos… y  yo…
    El periodista salió de la cocina dando un portazo. Su mujer  hizo un gesto de disgusto.
   
   Cenaron en silencio. La mesa redonda del comedor parecía  congelarse ante una rueda de miradas cruzadas. Hasta los dos niños preguntaron qué pasaba. Nadie contestó. Pero allí, él tomó la determinación.
  
      Esa noche, en la intimidad del dormitorio, Lito le  dijo a su mujer:
 __ Ya lo decidí, Lena; mañana nos separamos para la gente. Yo te quiero, sé que tú me quieres, pero no tengo derecho a someter a mi familia a este vendaval. Dejaría todo, pero ya estoy involucrado y alguien debe denunciar a los corruptos.  Mañana tengo que ir a la
Entrevista televisiva, y lo primero que diré es que nos vamos a separar por diferencias de pensamiento, o de cualquier cosa…
__ ¿Sí? ¿Y eso a ti te hace héroe nacional?  Nos podemos separar, pero tus hijos siguen siendo tus hijos…
__  Algo cambia. Te vas con los niños al departamento céntrico. Es chico, pero en un edificio, de departamentos van a estar más protegidos.
__ ¿No sería mejor que te callaras  y dijeras que te equivocaste?
__ ¿Cómo puedes pedirme eso cuando sabes todo lo que investigué para hacer esta denuncia pública?  Una vez me dijiste que lo que te había atraído de mí era mi  actitud frontal ante los hechos… Y ahora, tú misma me lo reprochas… Será una separación aparente, porque sabes que seguiremos juntos. Todo este tiempo compartido ha sido bien llevado… Nos hemos amado y los dos enfrentamos situaciones difíciles. Hasta perdimos un bebé… y sin embargo, todo anduvo bien entre nosotros…
__  Todo esto me asusta mucho... No quiero pasar por nuevas inseguridades…Pero bueno…todo estará bien…
    Depuso su irritación y se acercó a él con actitud cariñosa. Se abrazaron con intensidad…

    Al  día siguiente a estas vivencias,  ya día viernes, los niños no asistieron a clase. Lena se dedicó todas las horas del día a preparar valijas y enceres que necesitaría en la otra vivienda.   Al anochecer, llamó a  un fletero. Cargaron las pertenencias y útiles  propios de los chicos en actividad escolar, y abandonaron la casa del barrio, lugar donde hacía tres años se habían ido a vivir para gozar de  mayor sosiego y  libertad.

   El  día miércoles se desarrollaría  el programa televisivo de denuncia para el que  Lito había preparado las muestras contundentes del valor monetario sustraído por una falsa compañía de pavimentación, en el que quedaba imputado un  personaje importante de la vida política de los  últimos tiempos.
   A los  comprobantes de la estafa,  lo acompañaban fotografías que  demostraban, que dicho camino, seguía  como había nacido: de tierra.
 Evocó la actividad investigativa  del hecho que él consideraba una estafa social de gran envergadura y lo que lo había impulsado a la tarea de llegar a la verdad de los hechos para desenmascarar lo que había  ocurrido con  “El camino de tierra”.

Todo había empezado con el vibrar de su celular en  una reunión de prensa; en es momento había reconocido el número de Santo. Nunca dejaba de atenderlo. Eran amigos desde que tenía memoria. Se levantó y caminó el piso de  madera  con cuidado,  para evitar ruidos. Fuera del recinto del Club Deportivo, pulsó los números de su amigo.
__ ¡Hola, Lito!  Me ocurrió una desgracia. Me avisaron de mi pueblo que mi papá sufrió un accidente  con la camioneta…el campo, el barro del camino. Él murió. Me voy a Colonia. Te pido que me cubras mañana con la nota del partido de los jugadores del Club de Colón… Estoy desesperado…
__ Sí, tranquilo, anda, yo voy. Y mañana estaré en  tu pueblo…Tranquilo, mi pésame a tu mamá…
   
   El siguiente día amaneció lluvioso. Lito  había acudido  al Club  para a hacerle la nota al deportista, por encargo de Santo, y luego de pasar por el canal a dejar el material, se dirigió hacia la ruta para llegar al pueblo de “Colonia”. La lluvia copiosa hizo que el viaje fuese  una odisea. El agua saltaba en chisporroteos a medida que avanzaba. Tras muchas paradas forzosas por el diluvio, había llegado al pequeño pueblo; se había detenido  en la  explanada de la  gasolinera para reponer combustible y  luego había marchado hacia el bar, ubicado en un espacio no  mayor a cinco por cinco.
   Después de ingerir un café con leche y dos medas lunas, le había  y preguntado al mozo si conocía a José Milanta…
__  Sí… el que murió ayer en un accidente; se tumbó en el zanjón  y parece que se ahogó…
__  ¿Sabe  dónde lo velan?   Hace horas que viajo. Quería ir al velorio.
 __  En el mismo campo donde vivía el hombre. Pero no va a poder ir. El camino de barro está intransitable…  Tampoco lo van a poder sepultar. Ese camino es muy bravo. Una vez juntamos un montón de firmas para pedir que lo pavimentaran,  pero dicen que hubo una mano negra… que en el mapa de la provincia, este camino figura como asfaltado. Por eso todos los pedidos mueren enseguida… Comentan que la plata para  pavimentarlo, se la robó un  político que se agarró la plata… ¡Oiga!, ¡¡mire que dicen!!. Concluyó el hombre cuando vio la cara de asombro de su interlocutor.
__  ¿Sí? ¿Y quién es el  político?
 __  No sé…uno de la Capital…     
   En ese momento el cliente  de la mesa del otro lado, había llamado  al servidor, lo  que  dio  por terminada la conversación.
  Y allí, también, había terminado el velatorio para él…
  En esas circunstancias, se había comunicado vía celular con su  colega, quien le había pedido que se volviera, porque la lluvia iba a seguir y él mismo iba a quedar varado en un velorio “eterno”.

    La  conversación con el lugareño había desatado en Lito, gran  interés por  averiguar sobre el “Camino de tierra”.    
    Días más tarde acudió a las oficinas  de la  DIRECCIÓN NACIONAL DE VIALIDAD.  Pasó todo el día de oficina en oficina, hasta que dio con el camino 115 que iba de Colonia a Santa Elena. Ese era. Continuó varios días más visitando ese lugar. Afiebrado y con asombro seguía la tarea entregado por entero a la averiguación.
   Como le había dicho el hombre del bar, el camino figuraba como pavimentado y luego arreglado, con fecha reciente. Tenía razón el lugareño. A ese camino nunca  lo  pavimentarían porque “ya estaba pavimentado y también  reparado en  una segunda ocasión”.
 Comprobó quiénes eran los  firmantes  de la  primera solicitud, anotó sus nombres, y verificó también quiénes estaban involucrados en el segundo trámite de arreglo y bacheo. Y se asombró.
   Para hacer pública la denuncia en los medios masivos de comunicación, había desarrollado un plan estratégico y con él se presentó en un  programa televisivo. Claro que primero debió soportar  las  preguntas relacionadas a su separación matrimonial por parte de  la “muñeca” del panel. Luego de algunas frivolidades, había hablado de la “trampa” económica del camino de barro. Remarcó la estafa sufrida por los lugareños, quienes habían reunido firmas para la petición y tramitado la sustentación del pedido ante las autoridades correspondientes. Incluso, habían invitado al canal televisivo, a los personajes del primer operativo  relacionado con el pedido del asfalto. A uno de los firmantes de la solicitud, que encabezan la lista de petición para  que se pavimentara el camino,  Lito le preguntó frente  a las  cámaras de televisión:
  __ ¿Puede enumerar los trámites que realizaron esa personas para que se realizara la obra de asfaltado del camino que une a Colonia con Santa Elena?
  __ Bueno…- titubeó el hombre poco acostumbrado a estar ante luces-.  Hablamos primero con el Senador Ferrario y después juntamos firmas, y después fuimos a Vialidad y después…
Creíamos que a los seis meses lo iban a hacer, pero después no volvimos a encontrar al Senador y el tiempo pasó… Y cuando fuimos de nuevo, el camino figuraba como pavimentado  y… usted  sabe…nos dimos cuenta de la estafa… pero ahí quedó todo… Nosotros somos gente de campo… de trabajo… y los papeles no van con nosotros…
   Entonces Lito, con actitud de periodista investigador, desplegó el plan en el que había basado su  tarea. Con el fin de  mantener el mismo nivel de  audiencia, prometió dar los nombres de los implicados en la trama delictiva, en el programa del viernes.
  Antes de  retirarse, el panelista  que lo había invitado, le preguntó:
__ ¿Es cierto que esta tarea de  averiguación  le costó la separación de su mujer?
__ Es cierto. Ella no quería que yo continuara con esta tarea y en estos problemas. Ya no vivimos juntos. Es doloroso.
__ Sí claro- dijo el panelista. Y agregó: - Despedimos al  expositor con un aplauso…
  
  Apenas Lito regresó a su casa, sonó su celular. Era Lena. Le pedía que fuera al departamento porque Mario, el hijo de ambos,  tenía dificultades para respirar y que era muy probable que se lo causara otra vez, un  bronquio espasmo.
  Ante este mensaje, Lito decidió llamar a un taxímetro para volver al centro. Llegó al departamento de la familia y luego procedió a llevar al niño al hospital, en el automóvil de su  esposa, quien se quedó en el departamento  con la niña. Toda la noche se encargó de atender al pequeño, motivo por el que durmió pocas horas.
   A media mañana, lo  despertó su mujer. Le preguntó cómo seguía el enfermo y se tranquilizó también ella cuando le informó que ya estaba bien. Recién entonces ella le dijo:
__ Tu hijo te salvó la vida. Oí lo que grabé con el celular: “El programa del viernes que viene, en el que el periodista Lito Milanesi, daría los nombres  de los implicados en la estafa que consistió en la desviación del dinero de la pavimentación  del  camino a Santa Elena, y que aún es de tierra, nunca será dicho por él periodista, ya que fue silenciado para siempre a causa
de una atentado de bomba que hizo implosión en el domicilio del periodista, mientras dormía, y destruyó toda la vivienda…”  
    Al oír semejante noticia, el periodista quedó en posición  “de pensador”. Procedió luego a despertar a su hijo con suavidad, lo cargó en sus brazos y se aprestó a retirarse del lugar sin dar explicaciones y sin alterar el  orden del lugar. Accedió a la cochera del  Centro Sanitario, depositó al niño dormido en el asiento trasero, y enfiló hacia  el departamento de la familia.
     Al minuto siguiente, estaba con su esposa. Se abrazaron. Lloraron juntos.
 Luego, ambos se pusieron en movimiento: prepararon  las valijas, las portaron hacia el auto en el garaje del edificio; terminada esa tarea, levantaron a los niños, quienes miraban asombrados el hacer de sus padres y los llevaron hacia el vehículo.
Partieron hacia el exilio. Mientras, el teléfono del departamento estallaba en sonidos.    

3°MENCION -DE HONOR -NESTOR QUADRI

MUÑEQUITA RUBIA

Me encontraba caminando entre una gran cantidad de gente por una galería comercial del barrio de Flores en Buenos Aires, para efectuar las compras de los regalos de Navidad. De pronto, una joven mujer que caminaba hablando distraídamente con su celular tropezó abruptamente conmigo. Era muy linda, tenía el pelo rubio y color de tez igual que el mío y era casi de mi estatura. El golpe hizo que su bolso cayera al suelo y se abriera, dejando escapar parte de su contenido en el piso de la galería. Traté de ayudarla a recuperar sus cosas entre toda esa gente, cuando observé una pequeña y vieja muñequita de pelo rubio caída en el suelo. Esa visión me trasladó instantáneamente a un triste recuerdo instalado en el fondo de mi alma y que cada tanto emergía desesperadamente.
En ellos, siempre aparecía la enorme casa de mis abuelos, frente al inmenso Parque Avellaneda, donde vivía de chico con ellos, mis padres y mi hermanita melliza. Al igual que otros inmigrantes españoles, habían llegado a estas tierras con sus sueños a cuestas y la habían construido con sudor y muchos sacrificios. Era una de esas casas alargadas “tipo chorizo”, con habitaciones comunicadas y ventiladas mediante largos pasillos internos. Al fondo, estaba la tradicional huerta casera y numerosos árboles frutales. Allí, mis padres habían instalado unas hamacas y otros juegos, donde nos divertíamos con mi hermanita en aquellos días felices de mi infancia.
Pero esa felicidad grabada en mi mente de esos primeros tiempos de mi vida, quedó trunca para siempre desde aquel día fatídico. En ese entonces, concurríamos a escuelas diferenciadas por sexo, y ese día mi hermanita no tuvo clases porque se efectuaban tareas de desinfección. Entonces, como mis padres tenían que hacer unos trámites urgentes en la Ciudad de la Plata, decidieron llevarla con ellos en el coche. Cuando transitaban por la ruta, un camión se les cruzó de frente y tuvieron un accidente fatal, quedando el auto destruido por completo. Mis padres fallecieron en el acto, pero lo realmente extraño de esa tragedia, fue que el cuerpo de mi hermanita jamás apareció.
Ese hecho tuvo mucha difusión pública en los medios y luego de varias investigaciones, la teoría más atinada era que mi hermanita habría salido con vida del accidente y que fue apropiada por algunos malvivientes. Justamente cercano al lugar del accidente había un asentamiento en la que vivía mucha gente del hampa, donde circulaba impunemente la droga y la trata de personas. De todas formas, a pesar de esas presunciones, las intensas investigaciones realizadas por la policía no llegaron a ningún resultado positivo, y después de un tiempo no se habló más del asunto.
Sin embargo, yo nunca pude olvidar a mi hermanita melliza desaparecida, y en mi subconsciente siempre la buscaba. La recordaba jugando con su adorada muñequita de largo pelo rubio que le había traído Papá Noel, la que dormía siempre en su cama y era parte de su vida. Por ello, su  repentina visión sobre el piso de la galería me provocó una profunda impresión, mientras instantáneamente el rostro de esa mujer tan parecida al mío, se mezclaba ahora en mis recuerdos con la de mi hermanita melliza, en aquel mundo lejano y feliz de mi niñez.
― Perdóname, pero estaba caminando un poco apurada y no te vi ―, me dijo la muchacha, cortando abruptamente mis pensamientos, en tanto guardaba el celular y todas sus otras pertenencias en el bolso. En mi mano yo seguía apretando con fuerza aquella diminuta muñequita, mientras la emoción me embargaba, porque tenía la presunción de que era la misma de aquel entonces.
― No te hagas ningún problema por el tropezón,  no pasó nada ―, alcancé a balbucear.
― ¿Podrías devolverme mi muñequita, por favor?  Es un recuerdo de mi madre ―,  me dijo ella amablemente.
Mientras se lo devolvía, la miré intensamente, tratando de buscar algún indicio o señal en su rostro que expresara algún signo de reconocimiento. Sin embargo, la muchacha se mantuvo completamente indiferente, tomó la muñequita y luego de mirarla con cariño, me dio las gracias, dio media vuelta y se marchó, dirigiéndose prestamente hacia la calle entre esa muchedumbre que nos rodeaba. Ya había andado unos pasos cuando reaccioné súbitamente, y la llamé desesperado gritando tan fuertemente el nombre de mi hermanita, que retumbó en toda la galería. Entonces, ella se detuvo al instante y muy sorprendida volvió su rostro hacia mí, junto con los de algunas personas que la rodeaban.
―  Me parece que me has confundido con otra, porque yo no me llamo así. Ese no es mi nombre ―, me aclaró.  Me contempló por un instante y creí adivinar un gesto de compasión en su mirada, antes que reanudara su marcha resueltamente.
Quedé paralizado sin atinar a nada y mientras se iba desvaneciendo para siempre de mi vista, lo último que vislumbré fue su pelo rubio y el de la  pequeña muñequita que seguía aferrada a su mano. Quedé allí parado durante un tiempo, tratando de alejar de mi mente aquella dolorosa imagen de mi pasado que permanentemente me perseguía. Luego, algo más calmado de aquel encuentro circunstancial, reanudé mi marcha lentamente por la galería, mirando las vidrieras de los negocios para adquirir los regalos de las fiestas de Navidad. Estaba rodeado de una multitud de gente ansiosa por comprar, ignorante de aquel drama que formaba parte de la historia de mi vida.

4°MENCION - DE HONOR -MARCOS GABRIEL CHILLEN


Desde su infancia le gustó la fotografía, e iba para todos lados con su cámara en mano. Ésta eran sus ojos, y a través de la lente, veía el mundo, sus actores y su inquieta relación. En un principio disfrutaba solamente tomar fotografías de los paisajes. Por entonces, sus fotos eran recuerdos de sus viajes, que representaban la quietud y tranquilidad de aquellos lugares, donde el sol le marcaba el fin del horizonte. Con el paso del tiempo, comenzó a tener preferencia por las fotos sociales, luego de encontrarse con sucesos que sentía que debía fotografiar. Una pareja que discutía en una cafetería. Un adolecente lloraba en soledad, sentado en un banco de una plaza vacía. Una oficinista cuando detenía un taxi, mientras el viento le volaba sus papeles. Un ladrón perseguido por dos policías. Dos autos chocados, con humo saliendo de sus motores y frente a ellos, sus choferes en plena pelea a mano limpia.
Cada foto era una historia, pero nadie las podría contar con veracidad. A lo sumo, podría decir su idea de lo que pasó, pues sabía que esos sucesos no los había visto como realmente eran, sino, como creía que habían sucedido. Así fue como empezó a estudiar a los actores de sus fotografías, sus acciones y posibles pensamientos. ¿Por qué estaban ahí? ¿Qué buscaban? ¿A dónde iban?
Tras observar pausadamente a sus desconocidos modelos, concluyó en varias reflexiones. La primera reflexión surgió cuando tomó una foto en una protesta de ecologistas, donde se exponía un cartel que decía “por un mejor mundo para nuestros hijos”. Entonces pensó, por qué no un cartel que dijera “por mejores hijos para nuestro mundo”.
Otra reflexión apareció al fotografiar un niño perdido, que por sus ropas andrajosas la gente lo ignoraba. Así se percató que vivir en una ciudad no significa vivir con personas, sino sobrevivir en la salvaje y solitaria sociedad, donde cada cual está inmerso en su mundo, sin prestar demasiada atención a lo que sucede a su alrededor.
Una tercera reflexión llegó cuando le tomó una foto a un barrendero que ejercía arduamente su labor, mientras que detrás de él, se veía una señora acompañada de un niño, que arrojaba un papel al suelo. No solo pensó en como desmerecían el trabajo del barrendero, sino también en la enseñanza que le dejaba al niño. Se enfadaba de saber, que la gente decía querer una ciudad limpia, pero muy pocos contribuían para que eso se pudiera dar.
Obtuvo muchas reflexiones con el paso del tiempo. Diariamente sucedía algo que le dejaba una nueva enseñanza. Pero solamente, cuando vio en una foto su imagen reflejada en un vidrio, se dio cuenta de que estaba allí, como parte de aquella muchedumbre, como una pieza más del complejo juego social.

Siempre, a través del lente, había estado como un ser espectral, sin darse cuenta de su propia participación. Decidió entonces dejar de lado la cámara, para ser protagonista, y transmitir así, aquellas silenciosas enseñanzas.

5°MENCION DE HONOR - LIDIA KELLY

IDUS DE AGOSTO


Mes de tormentas, invierno en el hemisferios sur, Agosto la llevo por fin, tan inhóspito, crudo y cruel como  su ausencia, eterna.
Tengo que elegir tres fotos, porque tres y no cuatro o cinco?, no sé  ya no me acuerdo quizás es lo mismo, hermana me lo pediste hace tanto tiempo…  La tormenta azota los vidrios y me sobresalta tengo los nervios de punta con este tiempo, y no encuentro la caja de las fotos metida hasta el cuello en esta baulera horrible, hedionda y sin luz. ¡Pero encontré su cuadro! ¡El óleo!¡ Ella estaba tan orgullosa de él!, -“Lo pinto René Barkijian, el pintor del teatro Colón”- decía, me parece escucharla. Era tan joven en ese óleo, la definía de alguna manera con un fondo oscuro y tormentoso, la mirada es altiva y desafiante, un peinado en rodete de los 40, pero el truco fue, que aunque ella posó en traje sastre, él la pinto envuelta en  un escotado y largo vestido negro, tenía los brazos enguantados hasta el codo  y las manos reposaban sobre el regazo sosteniendo una gran pluma en tonos de grises, majestuosa! Me detengo a mirarla pero el llanto no me deja y tengo que seguir buscando la caja de las fotos. Encontré el álbum, pesado y negro con tapas duras de satén y separadores de papel transparente, todas las primeras hojas son de ella a caballo, con su traje de montar, Uy! ésta, apuntando con la escopeta seguro que te encanta! firme sobre su caballo, las botas altas, y papá a su lado. Esa la separo.
Después vienen las del 54 y 58, de la calle Cuenca, donde nacimos, pase el otro día y está igual, después de 60 años, no tocaron la fachada, increíble. Tendría que mandarte alguna de esa época, antes que descendiera la desgracia sobre la familia, antes del bochorno y la enfermedad, aunque ella contaba que para entonces ya habían comenzado los problemas. De Cuenca me acuerdo los carnavales en la vereda! y el corso!.
Después el amanecer en la casa de Mar de Ajó, el caos, el desamparo, el colegio de monjas. Encontré una foto de la calle Mansilla, vos estas grande, con vincha y anteojos y el pelo rizado sobre la nuca. Las tres paraditas junto al pilar del chalet, yo con un corte Cristóbal Colón, que odiaba. Ella con la vista perdida. En provincia hacíamos tortas caseras, títeres de trapo, y nos sentábamos junto al hogar a leña a dibujar y leer. Ella tenía las manos  iguales a las mías, eran las manos que dibujaban la portada del cuaderno en los cambios de estación, las que abrochaban los cordones de las zapatillas mientras me llegaba como un regalo el aroma de su pelo. En Mansilla empezó a enfermarse,-“tu vieja está loca-” decía papa cuando se enojaban. Y yo la desconocía cuando no tenía esa fuerza de las entrañas que todo lo hacía y se hamacaba la casa de punta a punta, o bailaba, brazos en alto al son de “Zorba el Griego”. Cuando se enfermaba su mirada perdía brillo y en la casa era todo tristeza y silencio. Pero vos en esa época ya no querías saber nada de ella. Tres fotos; tengo dos, la” Amazona” y “Mansilla”. En tu exilio auto impuesto te preguntaste¿ quién era ella, o  quién sos vos?
Papá finalmente se fue, yo me case, se quedó sola en el departamentito de flores, muchas tardes cuando salía de trabajar iba a tomar el té.- Rehace tu vida- le decía- y nada, ella siempre siguió enamorada de él, como una maldición, con sus colección de Plata Lapas, las medallas de papá en cuadritos de marco dorado a la hoja, y su cuaderno de versos.¿ Y ahora querés tres fotos….?
Es que me pongo tan mal ¡porque es Agosto! cuando empiezan las lluvias de Santa Rosa, me traen el aroma de su pelo, y el recuerdo de la noche que desperté a las cuatro de la mañana sabiendo que ya no estaba. Y la palabra suicidio, era una herida honda, impronunciable, un cuchillo filoso desgarrándome, suicidio se parece tanto a homicidio y a  Omisión.
No sé qué tres fotos te voy a mandar,  mírate en el espejo, fíjate que tenés su frente alta y despejada, la barbilla adelantada y valiente, el pelo castaño y rebelde, y algo” tano” te bulle en las venas hermana, como ella, la capitana de tantos inviernos. Entiendo porque la dejaste, era muy difícil tratar con ella y sus estados de ánimo,  no sé cómo pude, hasta el final, al final también le falle, no estuve. No te mando las fotos, te mando el cuadro, el óleo! el que la resume eterna en su juventud, osada, sonriente, con la mirada segura, envuelta en terciopelo negro, con el fondo tormentoso, como su vida; retratada por “el mejor pintor del Teatro  Colón .René Barkijian.”  Yo, me quedo con el resto.   

6°MENCION DE HONOR - LAURA DEFAZY

SOLITARIO


Los treinta y seis naipes habían sido acomodados prolijamente en hileras, boca abajo sobre la mesa redonda del comedor. Los otros cuatro separados, esperando su turno, al igual que la mujer que observaba la mesa con la cabeza hundida entre los hombros.
El color del lomo de las cartas, rojo y verde, parecía mimetizarse con el estampado del mantel, donde convivían, entre otros, el carmín desinhibido y apasionado de unas enormes rosas rojas, con el violeta y amarillo de los tímidos pensamientos, todos unidos por un entramado de hojas verdes de diferentes formas y tamaños, que parecían agregarle textura a la tela, al tiempo que una hiedra atrevida y desprejuiciada, trepaba sobre la estatua de un joven guerrero que se erigía sobre un pedestal, orgulloso de exhibir la fuerza de su bello cuerpo.
Era el mantel familiar, el que se había ido heredando por generaciones, el que cada señora de la casa se había comprometido a cuidar con absoluto esmero, al momento de recibir el valioso legado de manos de su predecesora.
Esa vez, a diferencia del resto de las noches, la mujer no se decidía a jugar y, aunque parecía que observaba las cartas, en realidad su mirada se perdía en la tela estampada que, al entrecerrar los ojos, la trasladaba a un jardín tan antiguo como lejano.
De pronto, un escalofrío le recorrió la espalda y por primera vez se sintió sola, con una extraña sensación de desarraigo que no lograba descifrar. ¿Dónde estaban esos fragmentos de vida que de pronto la asaltaban sin mostrarse totalmente, apareciendo desdibujados y confusos? Por su mente comenzaron a desfilar momentos íntimos, propios y ajenos, reales e imaginarios, sucesos que de alguna manera habían formado parte de su existencia, pero que ya no podían ni siquiera ser ordenados de manera cronológica.  
…Y esa imagen del jardín repleto de flores, sólo poblado por la imponente estatua del joven guerrero… ese mantel florido, habitado cada noche, entre oros y copas, por pajes y jinetes enemistados con los cuatro reyes, tan autoritarios y déspotas que, al reunirse, decidían cuándo era el momento de ir a dormir...
La mujer se puso de pie y dio un paso hacia atrás intentando alejarse de la mesa, y poder así escapar de la amenazante sensación de soledad que la había cercado, quitándole hasta la posibilidad de reconocerse a sí misma, y privándola del beneficio de admitir y aceptar su propia identidad. Sabía que, en ese punto, no tenía demasiadas opciones, pero también sabía que no podía dar marcha atrás.
Miró a su alrededor, el antiguo comedor era el mismo de siempre, nada se había modificado en su entorno pero, sin embargo, una extraña y abismal distancia la separaba de su cotidianeidad.
Debía tomar una decisión…
Lentamente juntó los naipes, los guardó prolijamente en una pequeña caja de bombones que, al quedar vacía mucho tiempo atrás, había sido destinada a albergar un contenido totalmente diferente al original, convirtiéndose en la encargada de custodiar el tan preciado tesoro de su dueña.
Casi como un ritual que repetía todas las noches desde hacía años, se dirigió, caja en mano, al viejo aparador ubicado al fondo del recinto y, abriendo uno de los cajones, ubicó el mazo de naipes en un extremo, mirándolo con una expresión tan serena que parecía estar cumpliendo con una ceremonia. Luego, según la costumbre nocturna, debía volver al lado de la mesa, doblar cuidadosamente el mantel y guardarlo junto a las cartas.
Sin embargo, esa noche algo había sucedido, algo tan misterioso como excepcional, que obligaba a la mujer a modificar la rutina llevada a cabo durante décadas.
De pie junto a la mesa, acarició suavemente el mantel rozándolo apenas con la punta de los dedos en una actitud lindante con la devoción, sabiendo que en él, silencioso e incondicional testigo, estaba plasmada su solitaria existencia.
De pronto, levantó la cabeza como intentando recuperar la dignidad perdida y, con un irrefrenable deseo de redimirse a sí misma, se apoyó con decisión sobre la tela y lentamente comenzó a desaparecer, hundiéndose en el centro de la mesa, como si una fuerza desconocida la absorbiera, tragándola suavemente y llevándola a perderse entre sinuosos laberintos surcados de flores multicolores.
No sintió miedo, del otro lado, la imponente estatua del guerrero le tendía la mano…

Nunca más, persona alguna supo de ella. Al principio, unos pocos vecinos, más por curiosidad que por afecto, se preguntaban qué le habría sucedido a la pobre señora, aunque poco tiempo después ya nadie parecía recordarla, como si hubiera transitado por este mundo sin dejar huella alguna.
Lo que nunca nadie imaginó fue que, por primera vez en su vida, ya no estaba sola.

7°MENCION DE HONOR- GUILLERMO JAVIER DUBERTI

EL MAESTRO Y EL DISCIPULO


Estar solo a los nueve años es algo realmente jodido. Que tus compañeros de clase se burlen constantemente de vos es un infierno en vida. Francisco Pedro Alarcón vive ese infierno y no sabe cómo manejarlo. El llanto, la bronca, la impotencia no conducen a otro sitio más que un terrible desierto, a una soledad gigante. Por suerte a su lado está su madre, Clara, que también está perdida en el mismísimo infierno que Pancho pero creo yo que el infierno de ella es uno paralelo. En esa otra piecita del infierno, vecina a la de Pancho, su madre lo ve quemarse sin saber qué hacer, sin poder extender su brazo de cariño y entonces sufre, sufre enormemente.
Con ese estado de situación se encontró Don Ángel en el otoño del ochenta y dos. El tema de sus vecinos llegó a su conocimiento como todo otro tema de interés del barrio, en un breve plazo. Fue una tarde que Angelito servía un café en la mesa que da a la ventana, cuando vio pasar a Clara y a Pancho. Iban tomados de la mano, Pancho lloraba a lágrima tendida. Su madre lo acariciaba y no lloraba, pero notoriamente se deshacía por dentro. Esa tarde mi amigo les salió al cruce: - Señora, buenas tardes – le dijo. – Necesito hablar con usted.- ¿Por qué no pasa con el nene y se toman una merienda?- A Clara inicialmente la invitación le produjo rechazo pero luego, conociendo la fama de su vecino, decidió aceptar. Inmediatamente Ángel le indicó a Largo que les sirviera unos café con leche en la mesita más alejada del salón y los acompañó. Mi amigo se sentó con ambos y fue breve en su exposición: - Señora, conozco el problema de Panchito y creo que tengo una solución para darles.- dijo. – Discúlpeme que sea entrometido pero es una situación que no puedo tolerar. Si Ud. me permite quisiera exponerle una idea que puede revertir el asunto. Sólo necesito que me traiga al nene todas las tardes con ropa deportiva.  Clara, conociendo las buenas intenciones de Ángel aceptó la propuesta sin dudar un solo segundo. Ni siquiera quiso interiorizarse de cuál sería exactamente el camino para sacar a su hijo de ese infierno. Cualquier intento era una luz de esperanza entre tanta desesperación.
Todo comenzó al día siguiente. Por la tarde Clara se hizo ver por el café de la mano de Panchito, en uniforme escolar y con una mochilita conteniendo un short y unas zapatillas. Don Ángel los recibió ofreciéndoles un café con leche, al que Clara se rehusó excusándose para dejar al maestro mano a mano con su nuevo pupilo. Panchito se tomó el café de un sorbo y se morfó en muy poco tiempo las tres media lunas que Largo les había servido. Una vez saciado, Angelito le consultó por la escuela. El pequeño le explicó que la escuela era una porquería, que la detestaba. Desde su ingreso en la mañana temprano hasta la hora de salir Panchito era objeto de todo tipo de burlas. Gordo, bola de grasa, ñoño, pelota, balón, oso, eran algunos de sus sobrenombres aunque de vez en cuando mutaban por el de inútil, bobo o bueno para nada. De los doce compañeros varones que tenía Panchito particularmente seis se burlaban constantemente de él, cuando no le pegaban para entretenerse. Digamos que la otra mitad eran observadores pasivos de esa misma situación. También estaban las chicas, pero para ellas Pancho era un cero absoluto.
Angelito le explicó al nene que el problema que tenía no era único, que no se sintiera mal, que él ya lo había visto en otros nenes y que tenía un método infalible para dar vuelta el problema. – Tenés que aprender a jugar al fútbol.- le dijo. – Así de sencillo, ¿Vos no sabés jugar a la pelota no?-  No señor.-  respondió Pancho. El fútbol no me gusta, mis amigos juegan muchísimo mejor, no me pasan la pelota y no puedo quitarla cuando me ponen en defensa.- Para colmo suelen burlarse de mí, por lo que no me interesa.  – Bueno pibe, respondió Ángel. Si a vos te interesa salir de esta situación tenés que jugar a la pelota, ¿Te animás? ¿Probamos?- Panchito no se animó a responder pero inclinó la cabeza como asintiendo. Bueno, empezamos ahora mismo.- señaló y tomándolo de la mano se lo llevó al patiecito del fondo, con una pelota debajo de su otro brazo. Ahí nomás Ángel y Pancho comenzaron con unos pasecitos. Inmediatamente el maestro entendió que tendrían muchísimo trabajo por delante, Pancho era capaz de errar una pelota a escasa velocidad o de caerse intentando pegar más fuerte. La situación empeoraba cada vez más pero cuando el cuerpo del maestro sintió el cansancio o el aburrimiento ocurrió algo que encendió una luz de esperanza. Ángel le pateó un poco más alto un tirito que iba directamente a la cara de Panchito y Panchito con mano cambiada logró despejar la pelota de sus ojos. ¡Eureka! grito Ángel, como habiendo descubierto un gran hallazgo científico. Inmediatamente se metió en el café y le grito al mozo: - Largo, deja todo, tenés trabajo.
Así empezó el entrenamiento de Francisco Pedro Alarcón. Largo, arquero profesional y retirado había encontrado un discípulo y en el patio del café comenzó con las primeras nociones. Pero la cosa no terminó ahí. Largo, sensible como Ángel, se solidarizó con el asunto y su intervención no se restringió al mero entrenamiento. A la semana de comenzar le pidió a Clara que le permitiera ir a buscar a su discípulo a la salida de la escuela. Los compañeros de Pancho al ver que se retiraba de la mano de un tipo de un metro noventa quedaron impresionados. En poco tiempo la situación de Panchito comenzó a revertirse. En el primer recreo que, siguiendo el consejo de su maestro, pidió ir al arco demostró evoluciones en su juego. Todavía estaba medio flojo de reacciones pero era capaz de volar para atajar alguna pelota alta y hasta de cortar un centro, algo poco usual en un chico tan pequeño. Estas primeras intervenciones de nuestro golero produjeron algunas reacciones en sus compañeros. A partir de ese día, al momento de salir al recreo, todos se disputaban a Pancho para tenerlo en su arco. La vida empezó a cambiar.

Gracias a la conducta del maestro y del discípulo prontamente Pancho se convirtió en un buen arquero. Y no solo atajaba, también el puesto le curtió la personalidad. Si hay un puesto en el fútbol que requiere de una personalidad fuerte es el de arquero. El arquero paga carísimo sus errores y sale siempre en la foto del gol del rival. Rara vez se convierte en héroe en alguna definición por penales, pero por lo general, la vida del arquero dentro de la cancha no es de gozo sino de sufrimiento. A los seis meses del primer encuentro entre Ángel y Pancho, la vida de este último cambió por completo. Dejó de ser el gordo, el ñoño, el imbécil, para ser Pancho un gran arquero admirado y querido por todos sus compañeros. Hoy son pocos los que recuerdan esta situación. Pero hay uno que jamás se olvida y estará por siempre agradecido. Si una tardecita de jueves usted se deja ver en el café de Angelito, va a ver como un grandote de un metro noventa y de espalda ancha, se toma un cafecito mano a mano con el bueno de Largo. Es que Pancho, hoy publicista adinerado y de renombre, se reserva todas las semanas, y créame que su agenda es importante, dos horas para conversar con su maestro.

8°MENCION DE HONOR- FIGUERAS SONIA GLORIA
  
                        
HACE FRÍO  MUCHO FRÍO     -


    Busco mi abrigo rojo y  me arrebujo en él. En caso de que me arrepienta por esta garúa finita anexada, que me regalará un resfriado, seguramente me volveré y listo. A lo sumo regresaré mojada, cambiaré mi ropa, me pondré  la bata rosa que me apasiona. Luego veré una película de ésas, aburridas, tomaré un whisky bueno, vaso chico mucho hielo y a lo de siempre. A pensar…
   Ya nada ha cambiado desde que Juan… ella… el amor de mi vida y esa otra mujer en un reemplazo incomprensible. Esa mujer, nuestra  ruina, ¿y ela? ¿la pequeña?
   Siempre cargada con las carpetas, las notas, los problemas de los alumnos, todos los desperfectos de la vivienda, las dificultades de la familia. No me daba el tiempo. Las horas corrían en un reloj que las horas no marcaban. ¿No me hacía el espacio? ¿Ese tiempo sin tiempo para nosotros tres?
   Yo en las escuelas de aquí para allá. Juanjo en la empresa. Hasta que ella llegó. De lejos. Llegó la prima extranjera, la prima huérfana, la inocencia en unos ojos glaucos huidizos perdidos en un verde claro. Ella y Juanjo. La cándida niña y el amor de mi vida. Los que se fueron y me dejaron sola y ella…y ellita… Solas con la soledad.  Con el caudal de mi llanto, sin mis amigos, los de él…. ¿dónde quedaron?
    Acá estoy.
 La calle a pesar del frío está concurrida. Desde la mesa de la confitería, miro pasar…alegres, apurados, cariñosos, juntos, solos, solas.
    Y la veo.
   Flacucha, esmirriada, ojos de Auswichtz, cara de niña asustada. Entra. Me deja la estampita de San Cayetano. Vuelve. La siento a mi lado a pesar de la cara del mozo.
  -¿Cómo te llamás? ¿Roxana dijiste? ¿No tenés frío? ¡Hace frío! Vamos. Pago. Salimos y se va, dejándome inerte como si hubiera sido un fantasma. Intenté, pero se fue. Se esfumó en la noche.
   No la vi más, la busqué, ¡vaya si la busqué en mi soledad  y con fiereza durante años!
   Han pasado varios, desesperados años y ahora oigo detrás de mí que un alguien arrastra los zapatos de tacos altos sumamente torcidos que veo la hacen trastabillar.  El cristal de una vidriera le da una imprecisa visión de la luz del día. El rimmel corrido marca sus ojeras. Se mira, atisbo desde cierta distancia. No se identifica con ella, se acerca más para verse.
    Ah…de chica, en mi barrio, allá en la calle Malvinas, cuando la rayuela era el juego cotidiano de las nenas, ella siempre llegaba primero a El Cielo ¡y era tan hermosa! El pelo crespo desafiando al aire, la frente ancha, la mirada airada, el cuerpo junco de los matorrales
.
   Surgían sus brazos mecidos con gracia plena, de la brisa traída por los plátanos gigantes de ese platanar de mis interminables caminatas. Sus piececitos se movían a secuencia extraterrestre, cosa de ganar la partida eternamente. Leves pisadas de geisha.
   Vino su tiempo con delantal blanco impecable como su capita de piel, camino a la escuelita, corriendo más que caminando. Devino el turno del brazo de un chico como ella, jeans y zapatillas haciendo piruetas en el abrazo y el beso requerido.
   Vuelvo hoy a encontrarla en mi desvelo de esta incierta madrugada, plagada de presagios, oscuras figuras que me atormentan luego de varios cafés que dislocan mi estómago. ¿Por qué no encuentro en sus ojos profundos el brillo, el fulgor que le dio el arrebato de aquel amor inocente, o la hilera de sus dientes no amplían las carcajadas de esa boca, que felices herían a los pacatos que al verlos no entendían ese amor? ¡Si de ese seductor cuerpo, de esa vara cimbreante con el ritmo nacido de sus entrañas emanara, nuevamente, el halo del ave sabio de su poder en plena caza que ondula los aires!
   ¡Ah, si volviera a ser la pequeña Diosa del Olimpo de la calle Malvinas, fuera feliz hoy mujer ya, y callara la voz monótona aguardentosa con que tararea esa canción incomprensible que oigo salir de entre sus labios detrás de mí !
   ¡Si me volcara su cuerpo empobrecido, destruido por los vapores del alcohol que me llegan y me embriagan! ¡Si se abandonara a mis brazos, se cobijara en ellos aunque no quiera pactar con la felicidad y permitiera que en un abrazo le dijera ”hija” y mintiera un “mamá”…
  Acá te aguardo.
   Roxana ya terminó el secundario nocturno. Ingresó a la Facultad.
   La estoy esperando para almorzar.


9°Mencion
Mis pasos en la vereda   -Yolanda Lopez Ferrari


Mis pasos torturan las baldosas de la vereda despareja, caminando en zigzag, esquivando los pequeños charcos que quedaron como ojos líquidos desparramados por doquier, después de la imprevista lluvia. La  vereda se angosta, las casas se inclinan a mi paso, los árboles mueven sus brazos en una loca danza sin viento.
El está ahí, casi mordiéndome los talones, lo presiento, pero siguen mis pies tironeando de mi cuerpo sin dejarme ver hacia atrás. Una luz en cada esquina hacen más fantasmal la noche. La luna se hizo un botón de nácar detrás de las nubes. Una lechuza con su grito corta la noche y mis pasos, dejando el ombú de la plaza con su enorme tronco carcomido como la boca desdentada de un gigante muerto.
Solo pienso en llegar a casa. Faltan cinco cuadras eternas y la plaza.
Como se me ocurrió con semejante día ir a un café literario a escuchar hablar sobre Borges, no lo sé. Había unos pocos delirantes como yo, un catedrático especializado en el genio y algunos duendes trepados sobre los estantes altos de la biblioteca, haciendo gestos obscenos, burlándose de mí o de mi ignorancia. Una profesora conocida estaba a mi lado, embobada escuchando la poesía borgeana, para qué comentarle que los duendes me distraían con sus piruetas y que me perdía en el tema. Mi mente y mis ojos iban del atril al techo y de las palabras sabias a la gesticulación bromista de aquellos diminutos seres sin sueño.
Algo me quedó de la conferencia. Algunos retazos, frases confundidas que se funden como remiendos. Y toca las paredes que se alargan con un gorro rojo y unos zapatos puntiagudos.
Que los glaciares del olvido me arrastren y me pierdan, despiadados.
Junto a una risa diminuta y sin dientes asomada amarillo sobre un libro en la última fila de estantes. El ojo descifrando las tinieblas, junto a un duende niño que derramaba perlas convertidas en luz cuando se estrellaban contra el piso.
Fueron dos horas de místico abandono, sin registrar la lluvia y la noche que había llegado. La falta de gente en las calles y una luz casi ciega guiando mis pasos llenan de dudas las sombras.
Faltan dos cuadras y entonces te perderé, aunque no te muestres eres casi tangible, si alargo mi mano seguro te adelantas, o te trepas al árbol que estira sus ramas rozando la vereda. Te siento tan cerca que erizas mi piel, solo ansío llegar a casa, mi cuerpo pesa y se hace más lenta mi fuga.
Se estira hasta el infinito la reja que me separa de mi casa. Al fin encuentro las llaves y el portón se abre, no quiero ver tu rostro, una sola puerta más y estaré segura. 
Enciendo las luces de mi hogar y su tranquila seguridad me abraza. 
Logré perderte en la vereda solitaria, quizás quedaste atrapado en un charco o te escurriste por la alcantarilla que arrastraba suciedad, hojas secas y una estúpida aprensión mía

10°MENCION
LA PESADILLA- FRANCA SCATURCHIO

“ Carlos, amor, estás durmiendo? “Claudia acompaña la pregunta con un beso sonoro en la mejilla. “Carlos, despierta”.
El finalmente se sacude, abre los ojos, la ve y se sonríe… ”No, no dormía, estaba pensando…”. 
“¿Pensando en qué? ¿En mí?, pregunta Claudia con coquetería. “Sí, en ti… pensaba en lo mucho que te quiero“. Claudia se ríe feliz y vuelve a besarlo.
En realidad, él estaba pensando en hacerle un regalo, sí, el próximo sábado festejarán  los veinticinco años de casados y  quiere sorprenderla con algo especial…  El no es bueno con los regalos sorpresa...
 Siempre le pidió que ella misma eligiese  lo que más le gustaba  (por supuesto que Claudia   hubiera preferido la sorpresa).
Para Navidad, bajo el arbolito, había paquetes sorpresa para todos y de parte de todos… y estaba también el regalo de Carlos, que ella misma envolvía con papel de colores y escribía la tarjeta: DE CARLOS PARA CLAUDIA. Y siempre era así: cumpleaños, aniversarios, fiestas… Pero esta vez… veinticinco años, ¡es una fecha muy especial!
Y llega el sábado. Lucho, el hijo, organiza la fiesta. Parientes, amigos, músicos, ¡cuánta gente! 
Carlos está feliz, ¡tiene una sensación de plenitud que lo conmueve hasta las lágrimas! Claudia, a su lado, se ríe con ganas, ¡ella también está feliz! Todos los invitados los rodean.
Lucho se abre paso cargando una enorme torta con veinticinco velitas encendidas cuyas llamitas temblorosas asemejan pequeños duendes bailando… Carlos también tiembla cuando tomándole la mano, le pone al dedo su primer regalo sorpresa: un anillo con un pequeño auténtico rubí. 
“Te quiero tanto”, los dos murmuran al  unísono, ¡felices!”.
“Carlos, despierta”. Claudia lo sacude con suavidad volviendo a besarlo en la mejilla, lo mira con ternura: qué estará soñando… parece feliz, pobre mi amor…


Le diagnosticaron demencia vascular, debido a varios ACV,  y desde hace ya un año está internado aquí, en una clínica geriátrica. Claudia va todos los días para acompañarlo a la hora del almuerzo. Ya no puede comer solo, ella le acaricia la cara…y él se despierta… Su mirada recorre el lugar, se detiene en  el rostro  angustiado de Claudia… No la reconoce… Se acerca una enfermera. Al verla se agita, sacude la cabeza con desesperación, cierra fuertemente los ojos, como queriendo borrar lo que ve… murmurando: “No, ¡otra vez la pesadilla!”.