sábado, 31 de julio de 2021

3 °PREMIO DE HONOR RELATO-CUENTO - ITALIANO- ALBERTO ARECCHI -

 IL NASTRINO ROSA



Il libro era un antico manoscritto, una lunga striscia di fogli di pergamena arrotolati su un’anima cilindrica di legno nero. Il titolo era scritto con inchiostro rosso sull’involucro: “De lamiis & fantasimis… ex anno mccccxl… usque ad mcccccl… AD inventis”. Era riposto sull’armadio che fiancheggiava il corridoio della sacrestia. Una volta il vecchio parroco cercò di prelevarlo. Una valanga di polvere gli precipitò addosso, gli provocò un pomeriggio di tosse e obbligò il sacrestano a ripulire il corridoio. L’imponente rotolo rimase lassù. Avevo dieci anni. Frequentavo quella chiesa e sognavo che un giorno avrei potuto scriverne la storia. Conoscevo scale e corridoi nascosti negli spessori delle antiche murature, sopra le volte gotiche, tra la polvere e i nidi dei nibbi, e i passaggi che conducevano all’antico convento adiacente, trasformato in scuola. Soltanto gli archivi mi erano preclusi, data la mia giovane età. 

Dopo tanto tempo, sono ritornato e mi sono ricordato di quel libro. I misteri mi hanno sempre appassionato. Il rotolo di pergamena si trovava ancora al suo posto, impolverato e dimenticato, sulla cima dell’armadio. 

Ottenni dal nuovo parroco l’autorizzazione di occuparmi del manoscritto, a condizione che esso non uscisse dall’archivio parrocchiale. Calai il lungo e pesante rotolo e lo deposi su un tavolone. Dall’indice, posto alla fine del libro, risultavano un centinaio di casi di confessioni e processi di streghe e stregoni, che abbracciavano un arco temporale dal 1440 al 1456.

Ottenni di potermi dedicare allo studio del volume in ore serali. Iniziò la lunga fatica della decifrazione. Lunghe veglie notturne, nel silenzio. Mi sedevo al tavolo e iniziava il mio viaggio nel tempo. Emergevano vite di povere donne con problemi di solitudine, o maghi che esercitavano l’eterna arte del plagio degli innocenti insicuri, per avere un po’ di denaro o di potere. Un potere sempre a rischio, però. Avrei potuto scommettere che non uno, dei personaggi citati nel libro, fosse riuscito a concludere i propri giorni in tranquillità, sul letto di casa. Mi ero abituato alla calligrafia, alle abbreviazioni, agli svolazzi. In certi tratti, il manoscritto era piuttosto noioso. Conteneva lunghi elenchi di persone inquisite, con reati e peccati, veri o presunti. Per lo più piccole colpe, anomalie di comportamento, oppure lievi difetti fisici. Un vecchio claudicante, un ragazzino affetto da balbuzie o nato col labbro leporino, erano guardati con un’attenzione che a noi, lettori moderni, apparirebbe morbosa e pedante.

In altri punti, però, le storie diventavano così animate e vive, da trasformare le fatiche della mia ricerca in un piacevole passatempo. I nomi diventavano persone vive, riuscivo a vedere la vecchia Giromina, affetta da sciatica e dolori artritici, che viveva in una vecchia catapecchia malsana, con un corvo e due gatti neri. 

Un giorno, la Giromina incontra nei boschi una bambina che “camminava senza lasciare impronte, senza neppure toccare il suolo con i piedi”. Un essere pallido, evanescente, tanto minuto che le si vedeva attraverso. La bambina non parla, non pronuncia neppure un suono… e ci mancherebbe! – penso io. – Ci mancherebbe che parlasse, quella visione apparsa a una donna malnutrita, che va in giro per i campi a raccogliere erbe! Qualunque medico avrebbe prescritto alla donna di mangiare, di rimanere al caldo e di riposarsi, e invece l’inquisitore insisteva perché gli descrivesse la visione… gli occhi erano gialli o cerulei? Quale vestito indossava? Aveva i capelli sciolti, oppure raccolti a crocchia? La Giromina si confondeva, ma qualcosa avrà pur risposto. 

Se la Giromina fosse stata una pia donna, rinchiusa in una cella conventuale e dedita ai sacramenti, o una pastorella vissuta in un’epoca di conflitti sociali, la sua visione sarebbe stata classificata come “celestiale” e si sarebbe avviata una causa di beatificazione, ma una donna derelitta che vede i fantasmi nei boschi, in una terra controllata dal cattolicissimo imperatore di Spagna, che cosa potrebbe aspettarsi? La gogna, la tortura, forse il rogo… Quella volta, la povera donna fu risparmiata. L’attento prevosto dei Carmelitani annotò che ella fu severamente ammonita, benedetta con un esorcismo e rimandata a casa.

Una sera, ero completamente assorto dalla lettura dell’antico testo. Forse mi prese un colpo di sonno, persi completamente la nozione del tempo. Mi ricordo che entrai in chiesa ed era già l’ora delle prime preghiere mattutine. Da una porta laterale, entrò una donna minuta. Camminava spedita sulle esili gambe legnose, coperte da spesse calze di lana nera. Tutta la sua figura era coperta di nero, con abiti di foggia desueta. Percorse un ampio giro, biascicando preghiere e accendendo qualche cero. Mi volse un rapido sguardo e si avviò all’uscita. Non so perché, la seguii. Uscii nella via coperta di neve. Nessuno aveva provveduto a pulire le vie. Solo un piccolo varco lungo i muri era percorribile, protetto dalle gronde delle case. Le vie, le case, non erano le stesse che conoscevo, ma si trattava d’un ambiente familiare. Ero intimamente cosciente di trovarmi nel mondo della mia lettura, nella mia città, ma quattrocento anni prima. La donna in nero non si voltava a guardarmi, ma era certa che io la seguissi. Percorremmo vie e viottoli, sino al suo tugurio. Un corvo spennato saltellava davanti alla porta e dava il benvenuto a chiunque. Quando mi disse: – Buongiorno, Messere! – la vecchia finalmente si voltò e mi fece cenno d’entrare. Aveva un gatto, ed era nero. Era una donna dal fare gradevole, per nulla terrificante. Si chiamava Teresa. Conversammo a lungo e bevemmo qualche bicchiere di vino. Un vino aspro, schietto, con un gusto che non sentivo più da molto tempo. 

Teresa era un’esperta di pozioni, sapeva fare brodi e decotti saporiti e ricostituenti. Non si reputava né una strega né una guaritrice. Rimasi a chiacchierare con lei solo dieci minuti, un’ora o l’intera giornata. Il tempo non passava, o forse ne avevo perso ogni nozione. Teresa aveva conosciuto la Giromina e sapeva tutto, o quasi, dell’apparizione. Mi descrisse la diafana figura di bambina, che somigliava a una nipotina della donna, morta in tenera età. Si offrì d’accompagnarmi nei campi, nel luogo dell’apparizione. Non era facile camminare nella neve ancora alta, sciolta dal sole in superficie e poi indurita dal freddo notturno. Avevo i piedi bagnati e soffrivo il freddo penetrante. D’improvviso, al di là d’un fosso, vidi un mulinello di vento che andava assumendo le forme di un’eterea bambina, emaciata, freddolosa, vestita d’un lungo camicione bianco, un fiocco rosa tra i lunghi capelli, i piedi nudi sollevati dal suolo. Rimasi immobile, paralizzato dalla sorpresa. Quando mi girai per parlarle, Teresa era scomparsa. 

Il mulinello si diresse turbinando verso di me, come a volermi investire… ma si dissolse come la fiamma d’una candela. Scomparsa nel nulla la diafana bambina. Una piuma leggera, il sospiro d’una rondine o un filo di paglia, volteggiava nell’aria tersa. Era un piccolo nastro, di color rosa pallido. Lo afferrai al volo. Rimasi solo in mezzo alla distesa di neve sconfinata. Lontani, irraggiungibili, vedevo da una parte il bosco e dall’altra i bastioni e i tetti della città, le torri, i campanili, e mille camini fumanti controluce, nella luce del tramonto. 

Mi ritrovò il sacrestano, la mattina dopo. Ero immerso in un sonno profondo, la testa appoggiata sul tavolo. Avevo i piedi asciutti, nessuna traccia di raffreddore o d’altri malesseri. Un nastrino rosa, umido e scolorito, era appoggiato a fianco del libro aperto, nel punto della visione di Giromina.


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